Santi e peccatori: la cultura popolare e la fascinazione per la Nunsploitation
La cover story di Rihanna per Interview è solo l’ultimo capitolo dell’affinità elettiva tra l’industria culturale e la Nunsploitation, il genere cinematografico di culto che dagli anni ’70 gioca con i nostri tabù religiosi.
Suore, cinema e peccati. Chi avrebbe mai pensato che questi elementi potessero convivere in armonia? Proprio in questi giorni ce lo ha ricordato Rihanna, nell’editoriale fotografico per il numero Spring 2024 di Interview Magazine, rivista cult fondata da Andy Warhol nel 1969.
Nel servizio firmato dalla fotografa e art director Nadia Lee Cohen (già al lavoro con A$ap Rocky, Beyoncé e Lana Del Rey, tra gli altri) la pop star statunitense indossa con piglio provocatorio e seducente un abito da suora. Sebbene gli scatti, subito diventati virali, strizzino l’occhio all’ironica cover di Pewboy, parodia in chiave cattolica del più noto Playoby, riaprono il discorso sul fascino che la cultura popolare ha sempre nutrito nei confronti del tabù della clausura e della castità monastica.

filone iconografico adottato, che si fonda sul ribaltamento malizioso (e a tratti blasfemo) di canoni secolari, non è certo nuovo. Anzi, affonda le radici nel cinema Italiano ed europeo degli anni ‘70 e, in modo particolare, in un genere tanto di nicchia quanto celebrato: la Nunsploitation.
Il genere, come suggerisce il nome stesso, nasce come costola del più ampio (e all’epoca fortunato) filone Sexploitation, ovvero film a basso costo che facevano leva sulle fantasie erotiche di un pubblico spesso ancora sessualmente castigato nella pubblica morale.
La Nunsploitation è un genere cinematografico che ha suscitato controversie e fascino sin dalla sua comparsa sul grande schermo. Questo genere, nato principalmente negli anni ’70, si concentra sulle vite, le tentazioni e i tormenti delle suore all’interno di conventi e istituzioni religiose. Attraverso immagini provocatorie e suggestive, la Nunsploitation esplora temi come la repressione sessuale, l’omosessualità femminile, il peccato, la colpa e il desiderio, unendoli ad un uso provocatorio di simboli religiosi e iconografia cattolica.
Proprio in virtù di questo legame con il Cattolicesimo, Il Nunsploitation ha avuto maggior proliferazione in nazioni mediterranee, dalla forte connotazione religiosa, come Spagna e Italia.

Il mito della suora e della monaca peccatrice, a ben guardare, affonda infatti radici nella tradizione letteraria di queste nazioni, come nel celebre personaggio della Monaca di Monza del Manzoni ne I Promessi Sposi. Sebbene il primo esempio di pellicola sul tema può essere rintracciato nella scandinavia degli anni ‘20 con Häxan, seguito dalla Polonia dei primi ‘60 (Mother Joan of the Angels, 1961), sono gli anni ‘70 a rappresentare il boom del filone che arriva a toccare anche i Messico, il Regno Unito e il Giappone.
La potenza iconografica scaturita dall’accostamento di suppellettili religiose ed erotismo, accostata a titoli spesso volutamente iperbolici e provocatori, ha contribuito negli anni a rendere il Nunsploitation un genere di culto, riscattandolo anche aglio cchi della critica cinematografica e di più ampi settori come la moda e la fotografia.

Tra i titoli più celebri Flavia, la monaca musulmana (1974), Le monache di Sant’Arcangelo (1973), Flavia l’eretica (1974), Interno di un convento (1978), Suor Emanuelle (1977), ennesimo capitolo della serie con Laura Gemser, The Nun and the Devil (1973), ma anche i giapponesi Cloistered Nun: Runa’s Confessions (1976) e Sins of Sister Lucia (1978), fino ad arrivare alle commistioni con l’horror, l’esoterismo e il thriller. Quest’ultimo ha un suo titolo di riferimento in Killer Nun – Suor Omicidi, film del 1979 di Giulio Berruti con Anita Ekberg, che quindi a distanza di quasi due decenni da La Dolce Vita torna a vestire gli abiti della suora.
Proprio come insegna il capolavoro di Fellini, l’iconografia della suora ha sempre alimentato la curiosità di fotografi e art director, aggiornando più volte i canoni dell’uniforme religiosa. Lo ha fatto Loredana Bertè sulla copertina dell’album Una, ma anche artisti come The Deviants nell’omonimo disco del 1969 e, nello stesso anno, i Fleetwood Mac in The Pious Bird of Good Omen. Fino ad arrivare al cinema contemporaneo, con opere come Benedetta di Paul Verhoeven (2021), The Nun (2018) di Corin Hardy, e Immaculate (2024) film diretto da Michael Mohan e da poco uscito che riprende il legame con le atmosfere del Nunsploitation anche attraverso la musica, come la traccia “La dama rossa uccide sette volte (ripresa)” di Bruno Nicolai.

Senza dubbio, il fascino di questo genere risiede anche nelle sue colonne sonore, che spesso i maestri della cinematica componevano sotto pseudonimo per, come dire, preservare una certa integrità di fronte alla pubblica morale. È il caso, tra gli altri, di Immagini di un convento, colonna sonora del 1978 a firma di Donimak, ovvero lo pseudonimo usato dall’insospettabile Nico Fidenco. Composta per il film diretto da una leggenda dell’Exploitation cinema come Joe D’Amato (aka Aristide Massaccesi), la OST – parte del catalogo CAM Sugar – vede anche la collaborazione agli arrangiamenti di Giacomo Dell’Orso, marito della corista Edda, anch’essa presente sul disco.
La cover story di Interview, diretta da Nadia Lee Cohen, è quindi solo l’ultima di una serie di opere, che vanno dal cinema alla moda, che continuano ad alimentare il dibattito sulla Nunsploitation e a dimostrare il fascino che la nostra cultura nutre per i suoi taboo iconografici.
Immagine d’apertura: Behind Convent Walls, Walerian Borowczyk, 1978.