Il jukebox di Hollywood: intervista a Randall Poster
Da Kids di Larry Clark all’ultima fatica cinematografica di Wes Anderson, The Phoenician Scheme, passando per Martin Scorsese, Sofia Coppola e Todd Haynes, negli ultimi trent’anni Randall Poster è il punto di riferimento del cinema per tutto ciò che riguarda la musica. Se esiste un segreto per trasformare una colonna sonora in cult atemporale, Randall lo conosce. Lo abbiamo intervistato per capire su cosa posa la puntina l’uomo più ascoltato di Hollywood, e perché.
Nel mondo del cinema, la musica non è solo un elemento di sottofondo: è una forza narrativa, un catalista di atmosfere, un amo che fa riaffiorare ricordi. Pochi lo sanno meglio di Randall Poster, l’uomo a cui tutta Hollywood porge l’orecchio.
Uno dei music supervisor più influenti del cinema contemporaneo, Poster ha trascorso gli ultimi tre decenni a plasmare paesaggi sonori per registi che vedono nella musica – soprattutto di repertorio – uno strumento narrativo essenziale. Dall’accompagnamento sonoro dei mondi onirici e perfettamente simmetrici di Wes Anderson all’energia delle colonne sonore di Martin Scorsese, il tocco di Poster è una mano inconfondibile ma al tempo stesso mai invasiva, capace di guidare le emozioni di una pellicola senza sovrastare l’immagine.
Si potrebbe sostenere che il primo singolo acquistato dal giovane Randaal, Laughing dei The Guess Who, ne abbia forgiato l’identità sonora a venire, con quelle scelte intrise di bubblegum pop e riff jingle-jangle capaci di rendere le colonne sonore da lui curate dei classici istantanei, delle madeleine musicali. Guai, però, a definirlo nostalgico. Poster è un ponte generazionale, che dona nuova vita e significati ai brani selezionati. Se oggi “Strangers” dei Kinks o “Le temps de l’amour” di Françoise Hardy convivono fianco a fianco con l’hyperpop nelle playlist dei tardo-millennial e della Gen Z, è anche merito suo. È Poster ad aver salvato i Creation e la West Coast Pop Art Experimental Band dall’essere meri feticci per collezionisti di Discogs. Dopotutto, il suo esordio nell’industria cinematografica con Kids, opera cult di Larry Clark, potrebbe spiegare questa sua visione capace di sfidare il tempo, e di porre l’heritage e il presente in un continuo e fruttuoso dialogo.
Con un istinto infallibile per la traccia perfetta e un profondo rispetto per il potere della musica nel cinema, molte delle scene su cui Poster ha lavorato sono diventate pietre miliari. Ma, come sottolinea lui stesso, non è mai un lavoro velleitario o in solitaria: è uno sforzo corale, in cui è il music supervisor a mettersi al servizio del film.
Poiché nella carriera di Poster ogni puntina fatta sapientemente cadere su un disco è un segreto ed un tesoro da tramandare, lo abbiamo intervistato in occasione della sua ultima fatica, ancora una volta al fianco di Wes Anderson, in The Phoenician Scheme.
La colonna sonora di The Phoenician Scheme, il nuovo film di Wes Anderson, unisce brani originali di Alexander Desplat con musica di repertorio a cura di Randall Poster.
Lorenzo Ottone: Hai iniziato a lavorare come music supervisor più di trent’anni fa. Come è nata questa passione per il dialogo tra musica e cinema? C’è stata una sorta di epifania?
Randall Poster: No, non c’è stata davvero un’epifania. Sono sempre stato pazzo per il cinema e pazzo per la musica, e in un certo senso sono cresciuto o sono diventato adulto in un’epoca d’oro per entrambi. Prima del digitale, andavamo a vedere cinque film a settimana. Sono cresciuto a New York, dove c’era anche tantissima musica. Essere un sedicenne a New York nel 1978 significava essere al centro del fermento culturale, tutto era vivo.
LO: Erano gli anni del massimo splendore di Max’s Kansas City e del CBGB, giusto?
RP: Esattamente. Potevi andare in discoteca il venerdì sera e poi al CBGB o al Mud Club il sabato. C’era anche tanto art rock. E c’erano le ragazze, che sono sempre state un traino [ride].
LO: Qual è stato il primo disco che ricordi di aver comprato?
RP: Il primo singolo è stato “Laughing” dei The Guess Who, che sono riuscito a inserire in Christine di Antonio Campos. Il primo album è stato Every Picture Tells a Story di Rod Stewart. “Maggie May” è ancora oggi il mio assolo di chitarra preferito…e non l’ho ancora inserito in un film.
LO: Come hai iniziato a selezionare la musica per i film?
RP: Ero all’università, studiavo letteratura inglese e non avevo un vero piano per la vita dopo la laurea. Ho scritto una sceneggiatura con un mio amico del college su una stazione radio universitaria e la crescente corporativizzazione del mondo musicale. Decidemmo di provare a realizzare il film in modo indipendente. E così facemmo. È stato lì che ho scoperto come assemblare la musica per un film.
Il film si chiamava A Matter of Degrees, ed era fatto interamente di canzoni. Nessuna colonna sonora originale. A quanto pare, avevo una certa facilità in questo, e trovavo emozionante coinvolgere nel progetto le rock band che amavo.
Decisi che quello che volevo davvero fare era lavorare con grandi registi, e che se avessi fatto della musica la mia specialità, quello sarebbe stato il punto di contatto. E fortunatamente, o miracolosamente, è andata così.
LO: Direi che ha funzionato meravigliosamente, più che miracolosamente, finora…
RP: Direi proprio di sì. Ho iniziato a fare film con i miei coetanei, che a loro volta si sono imposti come registi. The Phoenician Scheme è il dodicesimo film che faccio con Wes, e con Richard Linklater ne ho fatti quasi altrettanti. Con Christine Vachon e Todd Haynes lavoro fin dai loro esordi. La mia fortuna è stata ritrovarmi con persone della mia generazione che volevano fare cinema, diventare produttori e registi.

Randall Poster, fotografia di Brigitte Lacombe.
LO: La tua generazione è piuttosto nostalgica? Hai parlato con grande affetto della tua adolescenza in quell’età dell’oro della musica e del cinema, e mi ha fatto pensare a quanto l’estetica dei registi con cui collabori spesso sia retromaniaca.
RP: No, non direi. Ho sempre avuto voglia di inserire brani o pezzi musicali a cui sono legato o che ritengo degni di essere riscoperti, ma non definirei questo approccio nostalgico. Lavoro spesso su film in costume. Per esempio, The Phoenician Scheme è ambientato nei ‘50. Molti film che ho fatto con Scorsese lo sono altrettanto: anni ’20, ’30…
Probabilmente ho vissuto e lavorato in ogni decennio, ma per me la sfida non è usare la musica in modo nostalgico, ma usarla per dare vita a quei periodi. Penso a The Irishman e a come abbiamo riproposto quei brani: alcuni sono famosi, altri sconosciuti al grande pubblico, ma li fai rivivere, li rendi nuovamente contemporanei.
LO: È affascinante come molte delle tracce che scegli vengano poi fatte proprie dalle nuove generazioni, che poi vi assegnano nuovi significati.
RP: Pensa a I’m Not There di Todd Haynes. Quando c’è la svolta elettrica di Dylan, non provi lo shock che ebbe chi lo vide la prima volta, giusto? Quindi – mi sono chiesto – come restituire un po’ di quello shock? Non si tratta di nostalgia, ma di rinnovare la scoperta. Abbiamo aggiunto un po’ più di elettricità e dissonanza, per fare sembrare il momento più pericoloso.
LO: Qual è, quindi, lo scenario ideale per fare incontrare musica e girato?
RP: Mi esalto quando in un film ambientato nel passato sento qualcosa che sembra nuovo, o non ancora scoperto, ed io posso dargli nuova linfa vitale, usandolo da solo o grazie al contesto in cui lo inserisco.
LO: Ti è mai capitato che un brano fosse così coinvolgente da distogliere l’attenzione dal film? L’equilibrio sembra fondamentale nel tuo lavoro.
RP: Il concetto della nostalgia può essere una sfida per il pubblico, perché può evocare associazioni che prendono il sopravvento sul film e che distraggono dallo storytelling. Per esempio, con i Beatles ci sono così tante associazioni che è difficile usarli in modo originale.
LO: Pensavo a Scorsese, con cui hai collaborato. In Mean Streets, che mi ricorda il tuo approccio alle colonne sonore, osa usare i Rolling Stones e riesce comunque a dar loro significati nuovi, rinfrescanti.
RP: Questo è il vantaggio di lavorare con grandi registi: riescono a ricontestualizzare la musica e a conferirvi una nuova anima. A volte, quando una canzone [celebre] è molto costosa [da licenziare], penso: “Ottimo, questo significa che verrà usata il meno possibile.”
Se si tratta di un regista affermato, allora non è pretenzioso usare [la musica di] un grande artista. Ma a volte i registi più giovani mettono, per esempio, i Rolling Stones in una scena e dicono: “Non è fantastico?!” Purtroppo, sono io a dover dire loro che il film non riesce a reggere quel peso. Non può reggere l’eredità, la forza di una loro canzone. Se un film non è abbastanza valido da reggere un capolavoro musicale, ne viene schiacciato.
LO: Il tuo lavoro potrebbe sembrare analogo al compilare playlist, ma in realtà sei spesso sul set. Va sempre tutto liscio?
RP: Quando stavo lavorando a The Wolf of Wall Street, c’era una scena ambientata ad un matrimonio. Come band stavamo usando Sharon Jones – riposi in pace – e i Dap Kings, con cui abbiamo registrato mezza dozzina di brani, tra cui “Goldfinger”, che è nella colonna sonora. Però, mi chiamano sul set e mi dicono: ‘C’è Leo [DiCaprio] vuole ballare su “Baby Got Back” [di Sir Mix-A-Lot]’. Non l’avevamo registrata, ma Sharon Jones e i Dap Kings erano lì, quindi… l’abbiamo improvvisata. Nel film, all’improvviso parte “Baby Got Back”, lui fa quella danza assurda, e poi si passa a “You Pretty Thing” di Bo Diddley. Uno pensa: “Ma da dove è uscita questa roba?”
È logicamente incongruente, ma creativamente funziona. Dagli anni ’60, tutto d’un tratto, prende vita.

Kids (1995) di Larry Clark ha segnato il debutto di Randall Poster nell’industria cinematografica. Credits Gunars Elmuts.
LO: Il modo in cui usi la musica spesso sfida il tempo. Sto pensando a Priscilla di Sofia Coppola, e a come hai inserito la versione dei Ramones di “Baby I Love You”, che ovviamente non era ancora stata incisa quando Elvis e Priscilla si erano appena sposati.
RP: Credo che molto del merito vada attribuito a Sofia. In tutti i suoi film, in un certo senso, le emozioni sono più importanti della logica. Ha un istinto incredibile per queste cose, e serve anche una buona dose di sicurezza. Prendi i Ramones in quel film: è un modo per dire che non seguirai una strada convenzionale, è una scelta dettata dall’energia che quella musica trasmette. Questo deriva dall’impegno che un regista mette nel seguire la propria visione e dagli strumenti che decide di usare per trasmettere al meglio la storia.
LO: A proposito, hai ancora incertezze ed insicurezze quando lavori ad una colonna sonora o ormai padroneggi l’arte?
RP: Penso che chiunque abbia avuto una carriera duratura ti direbbe che ha ancora molti dubbi, alle volte. Credo che sia quello a tenerti sveglio, a farti mettere in discussione i dogmi. Uno può anche dire, ecco una regola: i pois e le righe non stanno bene insieme. Giusto?
LO: A meno che tu non sia in una band psichedelica nel 1967…
RP: E poi, all’improvviso, entra in ufficio un ragazzo vestito con i pois e le righe e via, tutto cambia. Quindi cerco di non impormi troppe regole. Mi piace molto lavorare con registi giovani, così non entro in una stanza mettendo barriere. Sono aperto all’esplorazione. Se penso che qualcosa non funzioni, lo disco. Ma non perché ci sia una regola che lo vieta: semplicemente funziona o non funziona, lo senti. Mi piace l’idea di aiutare qualcuno a dare forma a un linguaggio e a una visione nuovi, invece di ripetere gli stessi schemi già usati.
LO: In questo senso, il tuo lavoro è stato fondamentale per mettere le nuove generazioni in contatto con musica più vecchia, a volte dimenticata. Ci pensi mai alla legacy che stai lasciando?
RP: Qualche settimana fa sono stato invitato in un cinema d’essai a Great Barrington, in Massachusetts. Una cittadina adorabile, dove la comunità ha comprato un cinema che stava per essere chiuso e l’ha salvato. Ho proiettato tre double bill: ogni volta ho abbinato un film che mi ha ispirato con uno a cui ho lavorato. Abbiamo proiettato Somewhere di Sofia [Coppola] insieme a The Grand Budapest Hotel, American Graffiti con School of Rock, e Mean Streets con The Wolf of Wall Street. Il pubblico mi ha fatto molte domande su Wes, e Rushmore tornava spesso al centro dei discorsi. Per il pubblico più giovane, a quanto pare, è stato davvero una pietra miliare, ha avuto un valore rivelatorio.
Mi sono reso conto che uno può conoscere tutto il percorso musicale che ci ha portato, per esempio, alla British Invasion, ma per le nuove generazioni non è necessariamente così. È entusiasmante pensare che per molte persone i film possano essere una porta d’accesso alla scoperta musicale. Grazie a film come Rushmore c’è stata, senza dubbio, una riscoperta artisti come Cat Stevens o Françoise Hardy.
LO: Studi ancora molto o, arrivato a questo punto della tua carriera, la tua testa è un immenso archivio musicale, un grande cloud?
RP: Continuo a lavorare molto per tenermi aggiornato. Se mi chiedessi l’anno esatto in cui è uscita una certa canzone, probabilmente non te lo saprei dire. Non sono fatto così.
Prendi The Grand Budapest Hotel, per esempio: abbiamo fatto ricerche su tutti i compositori dell’Europa centrale, su diversi tipi di musica popolare. Per me è davvero divertente, è come fare i compiti. Devi affrontarlo con un approccio quasi scolastico, con rigore accademico.
LO: Il tuo approccio alle colonne sonore è sorprendentemente “playlistabile”. Ovviamente ha radici nel mondo analogico – fatto di canzoni copiate religiosamente dal vinile alle cassette per amici o amanti – ma allo stesso tempo suona molto contemporaneo, in linea con il modo in cui oggi fruiamo la musica sulle piattaforme.
RP: Tornando a Rushmore. È interessante perché è uscito prima della diffusione dei servizi di streaming, quindi non era facile accedere a tutte quelle canzoni. Ora puoi trovare molto più facilmente playlist già pronte o suggerite.
Quando, alle volte, qualcuno dice che la musica in una certa serie è fantastica, vado a vedere e riesco subito a capire se hanno semplicemente fatto la curatela tramite Spotify e se hanno trovato la musica grazie all’algoritmo. Non voglio essere troppo critico, ma è un approccio diverso.
LO: Si potrebbe dire che è come comprare un capo in una catena di fast fashion invece di farselo confezionare su misura. Qual è la vera differenza?
RP: È il tempo che dedichi a pensare alle cose. Detto ciò, la rivoluzione digitale ha reso possibile per me fare tutti i film che ho fatto. Una volta si trattava di spedire VHS avanti e indietro. Viaggiavo a Los Angeles con una valigia piena di CD per lavorare su un progetto. Ora, in trenta minuti puoi inviare quindici brani montati su altrettante scene, o quanti ne vuoi.
LO: C’è qualcosa che ti manca di quel periodo?
RP: Mantengo ancora la mia disciplina, ma oggi c’è meno pazienza che in passato. All’inizio, dovevi trasferire qualcosa su nastro magnetico, e poi tagliarlo a mano. Mostravi tre opzioni per una scena a un regista, e lui diceva: ‘Fammici pensare. Vado a fare una passeggiata.’ Vorrei che fosse ancora così. Oggi è come stare ad un buffet.
LO: Hai una mente cinematografica quando ascolti musica? Associ immediatamente i brani a determinati tipi di scene?
RP: Diciamo che ci sono canzoni che conservo a lungo, in attesa del film giusto. Un esempio significativo per me e Wes è stata “Let Her Dance” dei Bobby Fuller Four: ci abbiamo messo dieci anni prima di usarla per Fantastic Mr. Fox. E ne abbiamo ancora altre…
LO: Una di queste è la colonna sonora di Piero Piccioni per Il caso Mattei, se non sbaglio. Ha influenzato in qualche modo il tuo ultimo lavoro con Wes, The Phoenician Scheme?
RP: Direi che Il caso Mattei è stata ancora una volta qualcosa che abbiamo provato in diversi film. Wes aveva quella colonna sonora in testa, e poi il film si è evoluto man mano che lui prendeva visione di ciò che stava realizzando. Tuttavia, è servita da modello, da ispirazione. È stata sicuramente la Stella Polare per avere un’idea dell’identità che avrebbe dovuto avere la colonna sonora.
Da quando Wes ha iniziato a fare film d’animazione, con Fantastic Mr. Fox, ha preso l’abitudine di realizzare animatic per tutti i suoi film: questo aiuta tutti a sapere cosa costruire, eccetera. Il caso Mattei era presente nell’animatic.
Stravinsky ha un ruolo importante nel film, quindi, a quel punto, bisognava potenziare quei momenti. Ed è per questo che alla fine [Il caso Mattei] non è stato incluso nel film.
LO: Cosa ti attrae delle colonne sonore italiane?
RP: Quello che trovo davvero interessante in molte colonne sonore italiane è il mix tra archi e chitarre elettriche, l’introduzione di strumenti rock and roll nelle musiche da film. Molti di questi compositori italiani hanno incorporato proprio quel suono. Ci siamo divertiti moltissimo a registrare la colonna sonora e le canzoni di David Bowie interpretate da Seu Jorge per The Life Aquatic ai Forum Studios (ex Orthophonic Studios) di Roma. È stato incredibile essere in studio e vedere tutti quegli strumenti ancora lì.
Penso che ci sia ancora spazio per far evolvere quell’approccio alle musiche da film. Adoro quelle foto di band egiziane con orchestre dall’aspetto classico accanto a tre tizi con delle Stratocaster. Mi piacerebbe creare qualcosa che catturi proprio quella combinazione essenziale, e lavorare a una colonna sonora arrangiata con quel tipo di strumentazione.
LO: Forse è una nuova avventura per te e CAM Sugar…
RP: la musica CAM era davvero difficile da reperire, ma da quando Sugar l’ha acquistata, per me è diventato molto più semplice. Vi adoro!
LO: Quei dischi entravano in classifica, accanto ai singoli pop, e a volte superavano in popolarità persino il film per cui erano stati registrati. Le colonne sonore originali oggi sembrano molto meno gettonate rispetto a quelle realizzate con brani di repertorio. Come te lo spieghi?
RP: Quando gli LP e CD andavano ancora per la maggiore, la gente li comprava e le etichette ci guadagnavano. I vinili erano dei veri e propri strumenti promozionali per un film. C’è stato un periodo in cui le case discografiche avevano voce in capitolo anche in sala di montaggio, perché era redditizio – ma non è mai stata una cosa che mi interessava più di tanto.
Ora le colonne sonore vengono caricate sulle piattaforme di streaming e i compositori vengono pagati direttamente, quindi l’etichetta della colonna sonora guadagna poco nulla. È quello che viene chiamato ‘death of the soundtrack album’.
LO: Ma tu ascolti ancora musica in formato fisico, vero? A questo punto della tua vita devi avere una collezione impressionante.
RP: Sì, ma non mi sono mai considerato un collezionista. Semplicemente, avevo i miei dischi, che ho portato con me al college, poi a San Francisco, e nei vari traslochi. Vent’anni fa ci siamo trasferiti in una casa e li ho tenuti in garage, ma non mi ero accorto che si era allagato. Così, ho perso la mia collezione di dischi e i ricordi che ci stavano dentro…
LO: Una storia triste ma tragicamente comune…
RP: Ho deciso che non mi sarei lasciato sopraffare, anche perché avevo gran parte della musica su CD. Ma durante un’intervista con Terry Gross su NPR Fresh Air, mi è stato chiesto se ci fosse qualcosa che mi sarebbe piaciuto riavere in vinile. La risposta è stata On the Beach di Neil Young, la versione con l’interno della copertina con il pattern floreale. Sai che? Ne ho ricevute 12 copie dagli ascoltatori!
LO: C’è qualcosa nella tua lista dei desideri che i lettori di CAM Sugar potrebbero avere per te?
RP: No, va bene così! [ride]
The Phoenician Scheme di Wes Anderson, con la colonna sonora a cura di Randall Poster e le musiche originali di Alexandre Desplat, è ora al cinema.

Rushmore (1998) di Wes Anderson è uno dei film che più ha segnato e contribuito a far conoscere l’approccio di Randall Poster alla curatela musicale.
Immagine di apertura: The Royal Tenenbaums, Wes Anderson (2001), frame from the film.