“Il cambiamento salverà la tradizione”. Paolo Buonvino racconta le musiche de Il Gattopardo Netflix.
Il compositore siciliano ha rivisitato l’immaginario sonoro del romanzo di Tomasi di Lampedusa, lasciandosi ispirare dal paesaggio e dalle tradizioni musicali dell’isola dei Gattopardi, senza il timore di confrontarsi con l’opera di Nino Rota. Lo abbiamo intervistato per approfondire la sua visione musicale.
Il Gattopardo rappresenta ancora oggi una delle più grandi epopee romanziere e storiche della nostra cultura. Dal passaggio storico che determinerà la fine della dominazione borbonica ad una nuova nazione apparentemente unita, il romanzo di Tomasi di Lampedusa rifletteva apertamente la crisi del disincanto politico di una rivoluzione che non ebbe mai il suo effettivo compimento e di come la nobiltà ‘divina’ del Regno delle Due Sicilie dovette abdicare in favore dei nuovi ‘sciacalli’.
Nell’immagine del suo protagonista, Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, veniva riposta tutta la disillusione e la malinconica fine di chi fu tutto e improvvisamente nulla, di un’Italia appena sorta ma sempre uguale a sé stessa. Quella dei Salina divenne il ritratto perfetto di una famiglia usurpata del proprio potere e di come il tempo ne avrebbe scalfito ogni aspetto lasciando a figure disdicevoli, come ad esempio Don Calogero Sedara e sua figlia Angelica, il potere di poter condizionare le fondamenta di un nuovo stato che prendeva piede sulle scogliere di un’isola mai doma. “Queste donne appassite, questi uomini stupidi, sono solo prede indifese condannate a godere di un piccolo raggio di luce concesso loro, tra la culla e la morte”.
Nella sua prima trasposizione cinematografica firmata da Luchino Visconti nel 1963, Il Gattopardo divenne uno dei primi grandi colossal cinematografici del nostro paese coinvolgendo non solo grandissimi attori come Burt Lancaster, Alain Delon e Claudia Cardinale, ma anche un comparto tecnico e artistico di altissimo livello, capace di tradurre in immagini la grandiosità e il declino di un’epoca. Oltre alla fotografia di Giuseppe Rotunno, ai costumi sfarzosi e regali di Piero Tosi, c’è soprattutto la colonna sonora di Nino Rota, profeta in patria così come oltreoceano, capace di donare ulteriore profondità emotiva alle vicende del Principe di Salina, toccando ogni nota che il valzer potesse rappresentare.
Oggi nella sua nuova trasposizione seriale, il romanzo di Tomasi di Lampedusa torna nuovamente in vita toccando ulteriori tasti. La figura di Concetta Corbera diventa portatrice di nuove verità e rappresentazioni, e il tutto diventa effettivamente molto più conforme alle generazioni odierne. È la musica, composta per l’occasione da Paolo Buonvino (Romanzo Criminale, I Medici, Manuale d’amore), però, che continua a mantenere la sua sacralità entrando sempre più a fondo nell’affresco siciliano e scavando fin nel suo sottosuolo antico e perennemente cangiante. Certo, rimane immutato il legame filologico con i balli del tempo – i valzer, le polke e le mazurke – e, sopratutto con Verdi, da un cui manoscritto inedito Rota trasse il celebre “Valzer brillante”, che ha sedimentato Il Gattopardo nell’immaginario popolare. Cambia però il registro e, soprattutto, l’approccio, che si appassiona ai sentimenti e si addentra nell’etnomusicologia. Abbiamo incontrato il compositore siciliano per addentrarci nel mondo musicale de Il Gattopardo.
Paolo Buonvino ha reimmaginato il paesaggio sonoro siciliano per la colonna sonora de Il Gattopardo Netflix.
FdF: Come nasce il tuo coinvolgimento ne Il Gattopardo?
PB: Sono stato coinvolto quando il progetto era già in uno stadio avanzato, da Anna Collaboletta, music supervisor de Il Gattopardo. Oltre alla stima professionale che ci lega, credo che abbia pesato anche il fatto che la Sicilia è una sorta di personaggio del romanzo e poter renderlo in musica sarebbe stato un valore aggiunto . Conosco i meccanismi culturali e le sfumature di quella terra, che sono parte integrante del romanzo. Ho condiviso la mia visione musicale con [il regista] Tom Shankland, immaginando una colonna sonora che raccontasse la Sicilia come sfondo emotivo e narrativo, indipendentemente dalla trama, che diventasse un ‘personaggio’. Il regista ha reagito con la frase “we are twins”, sentendo una forte sintonia con la mia visione. Ho spiegato che avrei voluto inserire elementi musicali che facessero percepire la centralità della Sicilia come terra ricca di dominazioni ed influenze, presente nel romanzo come sfondo vivo e integrato.
FdF: Considerando l’eredità lasciata dal film di Visconti del 1963, come ti sei posto nei confronti di un’opera così importante, non solo a livello letterario ma anche cinematografico?
PB: Non amo fare confronti con l’opera di Visconti, perché sono due progetti molto diversi: uno è un film, l’altro una serie, e appartengono a epoche differenti. Visconti ha creato qualcosa di straordinario, ma il nostro il punto di partenza è sempre stato il romanzo di Tomasi di Lampedusa. Tuttavia, ho notato che nella colonna sonora di Nino Rota mancasse una dimensione musicale capace di evocare esplicitamente la Sicilia. Era questo l’elemento che volevo esplorare e portare nella mia composizione.
FdF: Come hai articolato questo processo? Sei riuscito dunque a evitare il peso del confronto con la colonna sonora di Rota?
PB: Fin dall’inizio ho individuato sei punti chiave su cui costruire il mio lavoro: la terra, la famiglia, le tradizioni, il sacro, la rivoluzione e l’anima. Partendo dalla terra, ho voluto esplorare in profondità l’anima musicale della Sicilia, ricercando e studiando fonti in un continuo scambio con uno dei maggiori esperti di etnomusicologia siciliana dell’università di Palermo Sergio Bonanzinga , è stato un tuffo nelle mie tradizioni, che mi ha consentito poi di reimmaginare questa dimensione e crearne una mia visione personale., inserendo queste radici dentro un linguaggio contemporaneo.
L’elemento della terra è stato fondamentale: ho cercato di comporre brani che fossero ‘arrampicati’ sulla terra, radicati in essa. Anche i nobili, nel mio racconto, sono legati a quella terra. La serie si chiude con un canto della tradizione, “Si Fussi Aceddu”, che ho voluto inserire perché aggiunge una dimensione emotiva importante. Il testo dice: “Se fossi un uccello, volerei dal mio amato, mi siederei sulle sue ginocchia e gli racconterei tutte le mie pene”. In siciliano è struggente, ha una forza emotiva incredibile. Per me, quel canto rappresenta l’amore sospeso di Concetta, la possibilità negata. È una metafora: se potessi volare, se le cose fossero andate diversamente, sarei felice. Ma lei accetta la sua eredità, il peso del destino familiare. Attraverso la musica ho voluto raccontare questa tensione interiore: da un lato l’accettazione di un ruolo, dall’altro il desiderio, mai davvero sopito, di una felicità differente.
La Famiglia, volevo raccontarla attraverso il valzer iconico. Volevo comporre il valzer della scena iconica, perché per me quel valzer doveva essere una sorta di trailer della vita del principe, un momento catartico in cui la musica del ballo gli facesse rivivere i momenti più salienti della propria esistenza portandolo poi alle riflessioni profonde che esprime nelle scene successive.
Riguardo alle tradizioni, ho voluto occuparmi di tutti i momenti di musica diegetica cercando di inserire più momenti aderenti alla tradizione della mia terra, che ne facessero trasparire la forza, il ‘profumo’, l’essenza.
Ho voluto approfondire il senso del sacro musicale nel romanzo anche con il continuo confronto con un teologo siciliano dell’Università cattolica di Milano (Francesco Brancato) per individuare il senso del sacro in sicilia e in quel momento storico. Canti delle suore nel monastero a Palermo e poi a donna fugata ne sono un esempio.
L’altro aspetto che volevo raccontare in musica era la rivoluzione anzi le rivoluzioni e i cambiamenti che ne derivano:quella storica dei Garibaldini, quella sociale rappresentata dal Sindaco Sedara e dalla figlia Angelica che prendono sempre più potere nei confronti della nobiltà, e infine la rivoluzione di Concetta, la figlia del Principe, che cerca di ribellarsi al padre. Vedi i brani: “Lettere dal fronte”, “Luci e ombre”, “Di speme e di coraggio”, “Il tempo negato”, e “Trame invisibili”. Infine, l’anima, l’aspetto forse più complesso. Volevo raccontarla nei suoi molteplici volti: il Principe che da uomo sicuro si scopre fragile e tormentato (“Ombre”, “Don Fabrizio”), l’amore trattenuto di Concetta per Tancredi (“L’incanto sospeso”, “L’alba”, “Potremmo scappare”). È un percorso interiore di trasformazione, fatto di nostalgia, di possibilità mancate, ma anche di consapevolezza.
FdF: Non ti fa paura il confronto con le precedenti incarnazioni de Il Gattopardo?
PB: La paura credo si basi sulla “competizione”. Io cerco di vivere l’arte e la musica in particolare, come un’espressione della propria anima, qualcosa di cui sento l’urgenza di esprimere ma con sincerità e semplicità. Utilizzo il mio sapere tecnico musicale ma mettendolo a servizio di questa urgenza. Quando ciò accade non bisogna avere timori. Nello specifico i due lavori a cui ci riferiamo sono racconti diversi, visioni differenti di uno stesso mondo. Spesso tendiamo a vedere un’opera come l’inizio di qualcosa, e tutto ciò che viene dopo può sembrare, in qualche modo, un “tradimento” di quell’origine. In realtà, ogni interpretazione è un ‘tradimento” , d’altronde il termine tradizione deriva da tradire. Si crea una tradizione, attraverso passaggi di tante reinterpretazioni che man mano dilatano arricchendolo il concetto iniziale in un certo modo tradendolo creando appunto una tradizione.
La vita è proprio questo movimento, questa trasformazione, è ciò che rende una tradizione viva e la salva dall’essere semplicemente un oggetto da museo. Per questo credo che dovremmo gioire di più quando qualcuno, con sincerità e passione, prova a rileggere un romanzo o una storia. È così che le storie continueranno a parlarci.

Paolo Buonvino ha composto la colonna sonora de Il Gattopardo diretto da Tom Shankland.
FdF: Come ti sei posto, invece, nei confronti del valzer, uno dei grandi classici di Rota?
PB: Come accennavo prima, desideravo creare il valzer per la scena iconica del ballo tra Angelica e il Principe di Salina. Non per ego, ma per dare a quel momento una valenza narrativa e musicale più profonda. Volevo che quel valzer raccontasse emotivamente la vita del Gattopardo, riassumendone perfettamente i sentimenti e i contrasti vissuti. Il ballo precede il monologo finale del Principe, in cui riflette sulla sua vita e su ciò che ha avuto realmente valore nella sua esistenza. Quel momento rappresenta una resa dei conti interiore, e mi sembrava significativo che il valzer anticipasse questa consapevolezza. Ho immaginato la danza come un racconto musicale, inserendo la Sicilia malinconica, ma anche un senso di apertura, e il ciclo inesorabile della vita. Una danza con il diavolo vestito da angelo, un momento carico di tensione emotiva e ambiguità. Non so se sono riuscito pienamente nell’intento, ma questo era il cuore della mia idea: che il valzer rappresentasse il caleidoscopio emotivo del Principe.
FdF: Come ha reagito Tom Shankland a questa idea?
PB: Quando ho composto il valzer, l’ho fatto ascoltare al regista prima ancora che venisse girata la scena. La sua reazione è stata molto positiva, e da lì, in modo naturale, quel tema è diventato parte integrante della serie, così come del Principe Fabrizio. Quella musica, con la sua atmosfera e intensità, ha finito per amplificare il significato della scena. Era come se quel motivo appartenesse già alla storia, quasi a riflettere la vita stessa del personaggio. L’avevamo ascoltato ancor prima di vederlo rappresentato.
FdF: Il tema del valzer segna un passaggio cruciale nella narrazione, quasi un rito sia di iniziazione alla nuova società italica, così come la fine dell’egemonia borbonica sulla Sicilia. Come hai lavorato su questo aspetto per tradurne il peso storico in musica?
PB: Nella serie de Il Gattopardo ci sono due feste molto differenti tra loro. La prima, da un punto di vista strettamente narrativo, è organizzata dai Garibaldini e rappresenta uno snodo importante: segna l’ingresso di un nuovo potere che dovrebbe simboleggiare il cambiamento. Da un punto di vista musicale, ho scelto e composto diverse danze: valzer, polke, mazurke. Alcuni di questi brani sono di Verdi, altri li ho scritti cercando di immedesimarmi nello stile di un compositore dell’epoca, ma senza caricare la musica di un significato diretto o esplicito. Per esempio, il primo valzer è stato selezionato con molta cura. Volevo che non fosse troppo coinvolgente, proprio perché i nobili presenti a quella festa non partecipano emotivamente: sono lì per dovere, ma restano distaccati. Se si guarda la scena, è chiaro che il Principe decide di far partire il ballo non perché si senta a suo agio, ma per una precisa strategia. Anche il valzer di Verdi, con cui si apre la danza, è stato arrangiato per mantenere un tono più formale e distaccato, coerente con l’atmosfera della scena. La festa poi si anima, ma in quel momento iniziale la musica accompagna un contesto di freddezza e sospensione. Non ci sono storie personali che emergono, perché quel cambiamento viene ancora percepito come qualcosa di esterno, non condiviso. È come se il principe vivesse quel momento come un ‘ballo della liberazione’, ma con l’idea che questa liberazione sia in realtà un’invasione. La musica riflette esattamente questo: è elegante, ma volutamente non coinvolgente, quasi trattenuta. Ovviamente ci sono danze più ricche e melodicamente belle nel corso della festa, ma non avevano lo scopo di raccontare l’identità dei personaggi, come invece fa il tema principale della serie, che diventa poi il valzer del ballo tra il principe e Angelica. L’intenzione era quella di accompagnare uno dei passaggi narrativi più delicati, lasciando che la musica suggerisse, senza mai invadere troppo la scena.
FdF: A cosa hanno portato gli studi e gli approfondimenti di cui parlavi prima?
PB: La colonna sonora si apre con un canto siciliano, registrato nel 1950 da Antonino Uccello, celebre antropologo siciliano. Quel canto mi ha colpito per la sua autenticità: rappresentava la Sicilia di un tempo, forse anche di cento anni prima. Anche per raccontare l’innamoramento e la purezza di Concetta, ho scelto due canti antichi: “Spunta Lu Suli” e “Si Fussi Aceddu”. Sono canti d’amore che, nell’Ottocento, venivano cantati dalle donne – una scelta insolita per l’epoca, ma che racconta una Sicilia dove esisteva anche una femminilità capace di esprimere liberamente i propri sentimenti. Questo dettaglio mi ha fatto pensare a Concetta: una donna pura, ma anche determinata, capace di dichiarare il proprio amore senza timore. Inoltre, diversi momenti di musica diegetica e alcuni testi che ho usato in alcuni brani vengono fuori da questi approfondimenti. Vedi i brani “Di speme e di coraggio”e “Luci e ombre”.
La colonna sonora CAM di Nino Rota composta per Il Gattopardo, diretto da Luchino Visconti nel 1963.
FdF: E per quanto riguarda l’altro grande protagonista femminile della serie, Angelica (Deva Cassel)?
PB: Tra gli altri temi introdotti c’è quello di Sedara, il sindaco di Donnafugata e padre di Angelica: un tema (“Sei Benvenuta”) che volutamente ho costruito con un andamento ‘sciancato’, come si dice in siciliano, ovvero un po’ claudicante. Volevo che la musica riflettesse la sua figura, inizialmente ridicola e sottovalutata, ma che cambia quando entra in scena sua figlia. In quel momento, il tema si fa più elegante e meno caricaturale, anticipando un cambiamento nel loro rapporto. Il tema di Angelica e Sedara prende forma definitiva con “Luci ombre”. Ho cercato di infondere in questa composizione il movimento sinuoso di un serpente, fatto di ambiguità e sottigliezza. È una melodia che ti avvolge lentamente, quasi senza che tu te ne accorga.
FdF: Un altro elemento ricorrente nelle tue musiche, e che si riallaccia con l’identità arcaica della Sicilia, sono le filastrocche…
PB: Proprio in “Luci ombre” c’è l’inserimento di un coro francese, costruito utilizzando filastrocche d’epoca. Questo perché il personaggio di Angelica, per stesso volere del padre, ha studiato in Francia ma non per sete di conoscenza, bensì per affinare la propria astuzia e capacità di manipolare l’aristocrazia. Le filastrocche, volutamente nonsense, riflettono questa dualità: un’apparenza raffinata che nasconde un’intelligenza più scaltra e pragmatica. Se ti soffermi sul tema di Angelica (lo suona al piano) la scala di cui parliamo ha radici profondamente siciliane, ma si manifesta in una forma molto sottile, quasi subdola, come il movimento sinuoso di un serpente a sonagli. C’è qualcosa di nascosto e affascinante nella sua natura, che richiama anche le sonorità della scala araba. Il tema musicale di cui parliamo diventa sempre più centrale nel corso della narrazione compiendosi nel brano “Di Speme e di Coraggio”. È un crescendo di circa quattro minuti che parte da una piccola cellula musicale, quasi impercettibile, ma carica di tensione. Questo tema rappresenta la presa di coscienza del Principe verso la famiglia Sedara: un disagio inizialmente lieve, come un sassolino nella scarpa, che cresce fino a diventare una valanga, qualcosa di inarrestabile. A partire dalla terza puntata, questo tema diventa il leitmotiv del personaggio di Angelica. L’ho declinato in molteplici varianti, proprio per rappresentare le diverse sfaccettature e i cambiamenti interiori del personaggio. La musica segue la sua evoluzione, trasformandosi perennemente.
Fdf: I temi d’amore nella storia sembrano sospesi come in attesa di un tempo ormai sfuggente. Come hai tradotto questo senso di incanto e incompiutezza nel linguaggio musicale?
PB: Credo che tu ti riferisca al tema di concetta “L’incanto sospeso”. È un pezzo costruito su piccole cellule musicali, un intreccio delicato che cresce progressivamente. Se ascolti anche solo dieci secondi del brano, capirai subito l’atmosfera che ho voluto evocare. L’introduzione è come un germoglio che si apre lentamente: le note si espandono piano, come gocce di primavera che fanno sbocciare un fiore dopo l’altro. Ma proprio quando si percepisce il bisogno di andare oltre, il brano sfuma. Non arriva mai a un vero compimento. Questo passaggio incompiuto racconta bene l’essenza del sentimento di Concetta: un amore che non si realizza mai pienamente, sospeso in una tensione costante. Diverso invece è il modo in cui ho raccontato l’amore di Angelica. Lì ho utilizzato altre sfumature, perché volevo restituire la complessità di un amore che non è del tutto sincero. Ma non solo nei confronti degli altri, quanto verso se stessa. Angelica è stata educata da suo padre a muoversi in un certo modo, ma c’è una dimensione più profonda che volevo esplorare. Angelica riesce ad ‘arrampicarsi’, a ottenere ciò che desidera, ma questa ascesa ha un prezzo. La sua vita resta sospesa, come se avesse ceduto una parte di sé per raggiungere il suo obiettivo. È una vittoria che non porta felicità, ma una forma di sospensione interiore, una rinuncia silenziosa.
Fdf: Il racconto della famiglia Salina è anche la testimonianza di dissoluzione di un’epoca storica, di una Sicilia regale e rurale. Come hai tradotto musicalmente questo senso di malinconica disillusione e di perdita che attraversa i personaggi e l’epoca che vivono?
PB: Prima di tradurre qualcosa in musica, devo sempre prima in qualche modo cercare qualcosa di simile dentro il mio percorso personale. Per me, ogni composizione è l’espressione di qualcosa che mi appartiene profondamente, qualcosa che nasce da dentro. Credo che, in fondo, l’essere umano sia sempre lo stesso: da quando esistiamo come Homo sapiens, affrontiamo le stesse questioni fondamentali. Dico questo perché ne Il Gattopardo questi temi sono evidenziati con grande forza. È un romanzo profondamente contemporaneo, nonostante parli di un cambiamento storico dell’Ottocento. In realtà racconta cosa accade dentro di noi ogni volta che affrontiamo un cambiamento. Ci sono personaggi come il Principe o il sindaco che, pur muovendosi in modi diversi, cercano di rispondere alle sfide del loro tempo. Si affannano, cercano di costruire qualcosa, ma alla fine sono tutti scontenti, così come lo sono le loro famiglie. Perché? Perché manca una vera dimensione di felicità. L’unico che riesce a sfiorarla, anche solo per un momento, è proprio il Principe. In uno degli snodi narrativi più importanti dell’ultimo episodio si chiede: ‘Quando sono stato davvero felice?’ E riesce a individuare solo due momenti della sua vita. Il resto lo considera tempo perso. È una consapevolezza dolorosa, ma lucida. E lo stesso accade a Concetta, nel momento in cui si innamora di Tancredi. Nella sequenza in cui lo confessa al parroco usa delle parole molto significative: “è l’emozione più grande che io abbia mai provato così come la calma più grande” e solo quelle parole bastano a far capire che si tratta di un sentimento autentico, che rende la vita piena di un’altra qualità. Quello è l’unico vero momento di felicità per Concetta. Tutto il resto, le scalate sociali, le discese, le conquiste, sono solo tentativi di arrampicarsi su montagne spesso sbagliate. E questo, credo, è il grande nodo esistenziale del racconto: il senso di cercare qualcosa, specie nel momento del cambiamento, un cercare che appartiene a tutti in tutte le epoche e a tutte le latitudini.
Il Gattopardo diretto da Tom Shankland con le musiche originali di Paolo Buonvino è ora su Netflix.

Immagine di apertura: Il Gattopardo. (L to R) Astrid Meloni as Maria Stella, Kim Rossi Stuart as Fabrizio in episode 102 of Il Gattopardo. Cr. Lucia Iuorio/Netflix © 2025