In my mind my dreams are real. Francesco Mandelli sulla sua arte, il rock’n’roll e la Formula 1.
L’attore, regista e musicista apre le porte della sua casa milanese a CAM Sugar per raccontare i suoi disegni ed il suo mondo caleidoscopico.
Quando arriviamo a casa sua, Francesco Mandelli è impegnato ad imparare le parti di chitarra solista di tutti i brani di Definitely Maybe, album di debutto degli Oasis che quest’anno fa trent’anni, tondi tondi.
Se i fratelli Gallagher cantavano “Can I ride with you in your BMW?”, per Francesco, attore, regista, scrittore, musicista, artista ma soprattutto grande appassionato di automobilismo d’epoca, è meglio sedersi al volante di una Ferrari: primo amore dai tempi dell’infanzia.
Fresco di reunion (a differenza degli Oasis) con Fabrizio Biggio per I Soliti Idioti 3 ed in occasione dell’uscita della playlist CAM Sugar Gentlemen Drivers, dedicata a motori, inseguimenti e al guidare elegante nel cinema italiano, Francesco ci ha aperto le porte di casa per discutere di un aspetto solitamente meno noto della sua arte: l’amore per la Formula 1 e il disegno.
Dal 2017, infatti, Francesco si dedica alla realizzazione di opere a tema F1, in cui con tratto ironico, quasi iperbolico, schizza con pastelli colorati volti e dettagli che hanno segnato la storia dello sport. Un corollario iconografico fatto di livree di vetture, caschi e, soprattutto, piloti. C’è Niki Lauda con i suoi denti sporgenti, Jackie Stewart con la sua zazzera da maverick del volante, Nigel Mansell riconoscibile per i suoi baffi folti. Le tavole raccontano di una Formula 1 oggi scomparsa. Un’età dell’oro delle corse automobilistiche che si ricompone proprio attraverso i dettagli cromatici degli sponsor nella memoria dell’attore.
Le opere decorano come in una wunderkammer il salotto della casa che Francesco condivide con la compagna Luisa e la figlia Giovanna, tra strumenti musicali di ogni tipo, souvenir esotici e memorabilia automobilistica, fotografie di antenati, un casco coperto di stelle salvato da un set cinematografico e, anche, una foto incorniciata degli Strokes, da sempre riferimento musicale e stilistico di Francesco.
Lorenzo Ottone: Come nasce il tuo rapporto con la Formula 1 e l’automobilismo?
Francesco Mandelli: Nasce nel 1985, mio padre era un grande appassionato della Ferrari e il suo pilota preferito era Gilles Villeneuve: era un matto, veramente una rock star. Lo chiamavano l’aviatore perché volava con la macchina quando faceva gli incidenti. Non aveva la voglia solo di vincere, ma di trovare il limite dell’essere umano con una macchina. Nell’85 mio padre mi porta a vedere le prove del GP di Monza. Ricordo l’atmosfera incredibile, il rumore pazzesco dei motori. Quell’impatto con l’autodromo, immerso nel parco, la gente che camminava per arrivarci…mi torna la pelle d’oca solo a parlarne. Guardavo sempre le gare sul divano con mio padre, e come tutte le cose che si fanno con i genitori, ci sono legato. Da lì ho iniziato a coltivare il rapporto con la Formula 1.
LO: Un rito al tempo stesso intimo e corale, mi sembra di capire…
FM: Per me la Formula 1 era un momento di condivisione, anche negli anni a venire, con gli amici con cui si andava all’autodromo. Il treno da Osnago a Monza, lo zaino con i panini, mia mamma che ci metteva una bottiglietta di Coca-Cola, e giù risate. E così è stato fino a qualche anno fa, quando la Formula 1 è cambiata radicalmente.
LO: Quale è stata, dunque, la golden age della Formula 1?
FM: La golden age della F1 è un’età che va dagli anni ’70 agli anni ’90, quando c’è stato un grande incremento nelle prestazioni ma anche generazioni di piloti incredibili. Penso a James Hunt, Niki Lauda, Emerson Fittipaldi, Ronnie Peterson, Mario Andretti, e questi solo nei ’70. Erano tutti dei matti, non si capiva come non potessero avere paura della morte.
LO: Non pensi che il non omologarsi di queste figure contribuisse a rendere la disciplina più appassionante?
FM: Ogni stagione c’era attesa nel vedere sfidarsi testa a testa, fino all’ultima gara, i due campioni. Era come vedere degli eroi mitologici che si lanciavano a 300 chilometri all’ora su delle bare ambulanti. Oggi sembra quasi una serie televisiva.
La cosa importante era soprattutto la diversità delle macchine. Non era una questione di trovare un’innovazione tecnologica e poi omologare tutte le vetture di conseguenza, come invece fanno da sempre gli americani nella Indycar, che pur amo, ma è uno sport completamente diverso. Ricordo quando iniziarono a introdurre i musi alzati, come fece Benetton: ogni auto era diversa ma sempre armoniosa.
LO: Guardando i tuoi disegni anche il fattore estetico della Formula 1 di quell’epoca sembra aver rivestito una certa importanza.
FM: Il fattore estetico è, senza dubbio, uno dei più importanti. Ovvero le livree, cioè chi metteva i soldi, che quasi sempre erano le industrie di tabacco. Penso a Lotus John Player Special, la McLaren Marlboro, la Williams Rothmans, la Lotus gialla Camel guidata da Senna.
LO: Tu sei anche musicista, anzi sei stato un vero protagonista dell’indie sleaze in Italia. Secondo te, quali sono stati i piloti più rock’n’roll nell’attitudine?
FM: Quando non si guardava la Formula 1, a casa mia si ascoltavano i dischi. Mio padre era un grande appassionato dei Beatles o di cose West Coast come gli Eagles e Crosby Stills Nash & Young: tutti dischi che probabilmente i suoi coetanei all’epoca non ascoltavano. Ascoltare la mia musica definiva la persona che ero, come i vestiti che indossavano e il modo in cui parlavo. Quando si è ragazzini, essere diversi dal gregge, è una cosa molto importante.
Negli anni ’90, da adolescente per me lo è stato il Britpop: nessuno dei miei compagni lo ascoltava perché dopo i Nirvana sembrava esserci maggiore seguito verso la scena grunge americana. Analogamente c’erano piloti che mi ricordavano delle rock star indie, perché anche loro avevano atteggiamenti diversi, avevano fatto scelte diverse agendo secondo il proprio istinto e non secondo scelte prestabilite.
LO: Per esempio?
FM: James Hunt su tutti, ma anche Jacques Villeneuve che aveva la tuta baggy, i capelli gialli, parlava come uno di noi, era molto diretto. Non poteva che nascere da un matto come Gilles. Un altro era Jackie Stewart, con i basettoni e i capelli lunghi. Sembrava uno degli ACDC.
LO: Come è avvenuto invece l’approccio al disegno? Lo consideri più un passatempo o uno sfogo?
FM: Da bambino, neanche a dirlo, disegnavo macchine di Formula 1: ogni anno su Autosprint uscivano i disegni delle auto della nuova stagione e io le copiavo tutte. Per un sacco di anni, poi, ho abbandonato il disegno. A un certo punto ricordo che Adam Green [musicista e artista statunitense, ndr], quando si lasciò con la sua fidanzata del tempo, mi disse che aveva ripreso a disegnare e mi fece vedere i suoi disegni. Mi fece scoprire molte cose della pittura e dell’arte, anche italiana, che non conoscevo. Mi ha fatto capire l’aspetto bellissimo di avere sempre un blocco e dei pastelli, per esprimere qualcosa che hai dentro di te e non riesci a esprimere in altra maniera, né con la musica né con il cinema, anche se non arrivi da un background esattamente tecnico. È l’importanza di trovare un tratto che senti tuo, indipendentemente da quanto quello che fai sia bello per gli altri. Non è un hobby, forse più uno sfogo creativo. Non mi interessa, però, prenderlo seriamente o mettergli pressione addosso.
LO: Come arrivi a rappresentare volti e iconografie della Formula 1?
FM: La voglia di rappresentare il mondo della Formula 1 è nata proprio nel momento in cui lo sport stava cambiando, e dunque perdendo molte di quelle caratteristiche che più me ne avevano fatto innamorare. Dunque, ho applicato dei tratti ironici – che è sempre quello che distingue ciò che faccio – in un mondo che stava diventando estremamente serio e poco romantico. Mi piace riproporne il simbolismo e gli stilemi estetici che, per assurdo, erano gli sponsor, il cui potere non capisci veramente da piccolino. Penso alla scritta Goodyear in blu su campo bianco, alla conchiglia della Shell, al cane dell’Agip, a tutti i marchi di tabacco che vedevi tutte le domeniche.
LO: Oltre ad essere un attore e musicista, sei anche regista. Quale compositore chiameresti per sonorizzare un tuo film ideale?
FM: Prima di tutto devo ancora capire che tipo di film faccio [ride]. Se potessi scegliere un compositore per sonorizzare i miei film penso che sarebbe una cosa a metà tra gli Oliver Onions e Noel Gallagher. Non so se sia mai esistito. Forse Burt Bacharach.
Immagine di apertura: Francesco Mandelli nella sua casa milanese. Fotografia di Manuela Mingrone.