Come la moda e la musica raccontano l’appeal senza tempo degli Spaghetti Western
Dall’ultima collezione di Louis Vuitton a Beyoncé, l’estetica western è tornata, ma il mito (e guardaroba) della frontiera americana è da sempre presente nella storia della moda, del cinema e della musica.
Non appena gli spettatori della sfilata Uomo Autunno-Inverno ’24 di Louis Vuitton dello scorso gennaio hanno iniziato a prendere posto ai Jardins d’Acclimatation di Parigi, è stato chiaro che la nuova collezione della maison francese avrebbe strizzato l’occhio all’America. Un imponente sfondo di canyon ha salutato il primo modello a calcare la passerella e, con esso, il suo cravattino di seta, gli stivali in cowskin e il cappotto dai ricami sfilacciati. Sono poi seguiti cappelli da cowboy, fibbie scintillanti e giacche con nappe, che hanno così sintetizzato il nuovo manifesto estetico della casa di moda sotto la direzione creativa di Pharrell Williams.
Allo stesso modo, solo poche settimane più tardi, già dai primi fotogrammi del trailer del nuovo album di Beyoncè, Cowboy Carter, si poteva subito cogliere l’iconografia texana che ne ha ispirato il concept e il sound.
Nell’anno del 60° anniversario di Per qualche dollaro in più di Sergio Leone – uno dei capisaldi del cinema Spaghetti Western – non si può fare a meno di notare come il genere abbia continuato ad alimentare la nostra iconografia popolare, ispirando costantemente stilisti e tendenze, dalle strade alle passerelle.
Sebbene l’abbigliamento tradizionale e da lavoro americano abbia più o meno sempre rappresentato, dagli Stati Uniti al Giappone, un fascino per gli adolescenti e i giovani ribelli fin dal secondo dopoguerra, è stata proprio l’interpretazione italiana del cinema western a rendere per prima particolarmente appetibile nel mondo la figura del cowboy.
Louis Vuitton, dettagli dalla collezione FW 24
Gli spaghetti western offrivano un aggiornamento dei classici film di cowboy e indiani prodotti negli Stati Uniti, arricchendo le loro classiche trame classiche con una nuova sensibilità, grondante di erotismo, violenza e politica, tutte tematiche che proprie della controcultura europea degli anni Sessanta.
Anche le loro colonne sonore sapevano arricchire la tradizione musicale del genere in maniera del tutto inedita per l’epoca. Dalla contaminazione con strumenti e stilemi contemporanei, ne derivò un tripudio di riff surf twangy e rock ‘n roll che, inevitabilmente, contribuirono ad avvicinare ulteriormente la cultura giovanile a questi film italiani senza dubbio sui generis, spiccatamente gore ma dal fascino innegabile.
Mentre la Trilogia del Dollaro di Leone sbancava al botteghino, band e cantanti pop iniziarono a prendere in prestito i loro abiti dall’armadio dei cowboy. Tra questi, le leggende della psichedelia americana The Charlatans, ma anche gli italiani I Corvi e persino la stessa Caterina Caselli per l’artwork di “Tutto nero”, la sua leggendaria interpretazione di “Paint It Black” dei Rolling Stones. Complice il successo di Midnight Cowboy, in poco tempo anche i Byrds iniziarono a includere elementi country e honky tonk non solo nel loro sound, ma altresì nel loro guardaroba con l’album spartiacque Sweetheart of the Rodeo (1968). Lo stesso fecero un anno più tardi i Quicksilver Messenger Service, che per l’artwork di Happy Trails (1969) si ispirarono all’iconografia di un’epica americana quasi edulcorata fatta di praterie e corse a cavallo spensierate. Il cantautore statunitense Lee Hazlewood addirittura immagina il suo esilio autoimposto in Svezia come un aggiornamento della mitologia del cowboy solitario, intitolando il suo film (e corrispettivo album) Cowboy in Sweden. “Hey cowboy, dove hai preso i vestiti che indossi? Hey cowboy, dove hai preso quei capelli strani?”, canta la cantante scandinava Nina Lizell nella colonna sonora che accompagna l’opera.
Dettagli grafici e stilistici dell’iconografia Spaghetti Western raccontano l’eterno appeal di questo filone cinematografico.
Abbiamo chiesto a Marta Franceschini, storica della moda e co-curatrice della mostra Fashioning Masculinities: The Art of Menswear al Victoria & Albert Museum di Londra, le ragioni dell’intramontabile fascino del look da cowboy.
L’influenza non è certo “nuova”. Diversi stilisti hanno inserito nel loro lavoro riferimenti all’immaginario western, e spesso lo hanno fatto in modo critico. Penso a Kenzo nel 1986: un atto di appropriazione di un patrimonio problematico, sovversivo perché guardava a un mondo diviso tra vincitori e vinti, buoni e cattivi. Kenzo lo ha glamourizzato, lo ha trasformato in stile, svuotando i suoi simboli del loro significato politico. La modalità è simile a quella che tanti creativi hanno utilizzato ispirandosi a vari altri luoghi – territori conosciuti di nome ma forse mai visitati, come la Cina, l’India, il Giappone. Questa metodologia è vicina al modo in cui si presenta lo spaghetti western: la versione europea o italiana di un genere statunitense, che lo celebra e lo smitizza allo stesso tempo”.
Decenni prima del tributo di Pharrell all’estetica del cowboy, già dalla fine degli anni Settanta molti marchi hanno trovato ispirazione in questo stile. In particolare, la collezione di Thierry Mugler del 1992 è stata tra le prime a immaginare una cowgirl moderna, agguerrita, pronta tanto per calarsi in un dive bar frequentato dagli Hells Angels quanto in un queer club. La stessa Vuitton aveva già toccato il tema quando l’ex e compianto direttore creativo Virgil Abloh aveva immaginato il suo cowboy afrofuturistico nella collezione FW ’21 della maison; senza dubbio un punto di riferimento per le recenti creazioni di Williams.
Solo pochi anni fa, Maison Margiela ha collaborato con John Galliano alla propria celebrazione della moda cowboy, mentre nel 2017 Raf Simons ha intrapreso un viaggio attraverso i codici di abbigliamento e i tessuti dell’America, utilizzando denim, camicie da cowboy in raso e toccando persino la cultura Hamish. L’anno successivo la prima collezione di Maria Grazia Chiuri per Dior ha esplorato in modo simile la frontiera americana, fino al Messico, con una collezione che ancora una volta suggerisce come l’aggiornamento dei canoni del Far West sia qualcosa che da sempre distingue i creativi italiani.
Ma ancora prima della fascinazione dell’haute couture per il guardaroba dei cowboy, lo stilista americano di origine ucraina Nudie Cohn si era fatto un nome tra le rockstar degli anni Settanta con i suoi abiti ricoperti di strass e sfarzosamente ricamati. Modelli che, a loro volta, si sono sedimentati come classico dell’immaginario Western, diventando uno stilema del revival della moda cowboy, come testimoniano i celebri ritratti di Gram Parsons con le sue creazioni.
Alla fine del decennio Ralph Lauren fu una delle prime case di moda a promuovere un ritorno esplicito dello stile, sfruttando l’interesse per l’abbigliamento heavy duty americano che si stava diffondendo, in primis in Giappone, anche grazie a pubblicazioni come Made in USA, ispirata al Whole Earth Catalog, e la neonata Popeye – Magazine for City Boys. L’approvazione dello stile in questione da parte di quest’ultima, una testata di riferimento per la moda Preppy, iniettò infatti nuova linfa all’appeal dei capi da cowboy. A metà Ottanta, così, con i paninari anche in Italia si assiste a una rivisitazione urbana dell’estetica da ranch, definita dalla folle combinazione di stivali Camperos, cinture El Charro e cappelli da cowboy con giacche a vento Stone Island e denim Armani.
A cinquant’anni di distanza, il look da cowboy continua ad alimentare l’immaginazione e lo stile di innumerevoli artisti di generi diversi come la nu-psych, il rap e l’hyperpop. Icone dell’underground come Black Lips, Allah Las, Night Beats, Orville Peck e Khruangbin hanno assorbito il mondo degli spaghetti western nella loro identità musicale. Ma anche il premio Grammy Lil Nas X o la pop star Elettra Lamborghini hanno dimostrato di saperne sovvertire i canoni dell’etiquette western proponendone, ognuno a suo modo, un’interpretazione dal taglio queer. Il loro stile ricorda l’uso provocatorio e giocoso degli chaps in pelle da cowboy o gaucho tra la comunità LGBTQ+, ma anche tra i biker frequentatori della scena BDSM della New York warholiana.
“La moda è una disciplina che si presta a mettere in discussione i canoni e a ribaltarli. Più i simboli sono riconoscibili, più sembra facile tradurli in linguaggio vestimentario e tradirne il significato: cosa succede se ciò che è associato a un machismo locale viene indossato da modelli femminili? Se abiti e accessori che si riferiscono a un gruppo specifico di persone, e che sono nati per l’azione, vengono trasformati in uniformi di lusso? E se, ancora, un direttore creativo con un background specifico li trasportasse in una terra diversa, diciamo Parigi, e li facesse sfilare accompagnati dalla voce del coro Native Voices of Resistance? Il tema non sembra porre problemi in termini di appropriazione culturale, perché la storia dei vincitori viene sempre più messa in discussione”, spiega Franceschini.
“Siamo in un momento di doverosa rivalutazione delle storie e delle conseguenze che la ‘conquista’ dell’Occidente ha portato a diverse popolazioni, e credo che il desiderio di riequilibrare la storiografia stia emergendo nei territori più esposti della cultura popolare, nel cinema come nella moda”.
Opening image: Arizona Colt, German film poster, 1966.