Il design della paura

Lorenzo Ottone

Dalle ville di Gio Ponti e Nanda Vigo al Liberty romano di Dario Argento. L’invenzione dell’horror italiano passa soprattutto per il design e l’architettura.

Distinti serial killer neroguantati, dai soprabiti chiari, cappelli a tesa larga e passo svelto nell’oscurità. Che film del terrore sarebbe senza questo inconfondibile stilema? E cosa sarebbe il cinema horror senza i suoi It, Jason di Venerdì 13 e Freddy Kruger?

Tutti (o quasi) capisaldi del nostro immaginario della paura che devono i loro natali al cinema italiano. Un filone, quello horror e Giallo, che ha contribuito soprattutto a una rivoluzione stilistica, capace di cristallizzarsi nel tempo sul piano iconografico e fungere da continua ispirazione per decine e decine di pellicole cult e registi.

Lo ha dichiarato più volte anche Quentin Tarantino che ne è follemente innamorato: Mario Bava è stato pioniere di una tecnica che ha saputo portare al cinema del brivido un lirismo prima inimmaginabile.

Non a caso, sua è la firma degli effetti speciali de I vampiri, pellicola del 1957 di Riccardo Freda – con musiche, nomen omen, di Roman Vlad – considerata la capostipite dell’horror all’italiana. Nel film la maestria di Bava e del truccatore Francesco Freda emerge nella scena del repentino invecchiamento del personaggio interpretato da Gianna Maria Canale, realizzato senza stacchi di camera. Bava, attraverso l’utilizzo di gelatine colorate applicate davanti all’obiettivo, e sfruttando la diversa quantità di luce filtrata altrimenti invisibile nella pellicola in bianco e nero, riesce infatti ad evidenziare via via i diversi strati di trucco applicati al viso con un risultato terrificante ed inedito per l’epoca.

Passa appena una manciata di anni e Bava, ormai regista consolidato, nel 1964 dirige Sei donne per l’assassino, anche noto con l’elegante titolo internazionale di Blood and Black Lace: sangue e pizzo nero. È proprio questa sofisticatezza, questo inedito accostamento di violenza e glamour, a innescare la rivoluzione modernista del cinema della paura made in Italy. Non solo Bava spiazza, sbarazzandosi dei vetusti stilemi gotici del cinema dell’orrore e decidendo di ambientare il suo copione in una boutique di alta moda parigina, ma apporta un’altra innovazione fondamentale. Lo suggeriscono i titoli di apertura, dove il jazz di Carlo Rustichelli per CAM scandisce l’incedere della camera tra gli enigmatici manichini di brillante velluto rosso della boutique.

Qui Bava introduce quella che si potrebbe definire estetica dell’omicidio, ovvero la capacità di estetizzare a tal punto le scene sanguinarie da svuotarle di ogni violenza e sadismo, che passano in secondo piano, elevandole a puro e sublime gesto stilistico. 

Una lezione che lo stesso Bava aveva già accennato nel precedente The Girl Who Knew Too Much (1963) e che finirà per ispirare due altri maestri del genere, l’italiano (ma globalmente riconosciuto) Dario Argento e John Carpenter.

La seconda grande intuizione di Bava è quella di delineare l’uniforme dell’assassino in impermeabile, cappello e volto occultato, uno stilema oggi inconfondibile, ma prima di allora mai visto. Sono queste le iconografie che insieme al trillo del telefono, al riflesso della lama del coltello nel buio, ai passi felpati e premonitori dei gatti neri, agli occhi sgranati dal terrore e alle inconfondibili grida di aiuto-disperazione contribuiscono a delineare il design coerente ed innovativo dell’horror tricolore.

Oltre alla tecnica cinematografica, è senza dubbio la cifra del gusto italiano  – che si tratti di moda e costumi o design e interni – a distinguere e rendere tutt’oggi amato il nostro horror. Un elemento che va di pari passo con la volontà di sceneggiatori e registi di attualizzare il cinema della paura anche nelle tematiche. Il soprannaturale delle leggende popolari si amalgama infatti con la cronaca nera, introducendo nel genere sadismo, perversione e morbosità. L’assassino non è più un personaggio del passato, ma l’insospettabile vicino che diventa serial killer. Analogamente, l’ambientazione da gotica diventa metropolitana.

È proprio l’equilibrio che dalla fine degli anni ’60 si verrà a creare tra la dimensione gotica e quella modernista a stabilire una delle cifre esclusive e più amate dell’horror e Giallo italiano. Un equilibrio che si riscontra anche nelle colonne sonore di questi film, sempre in tensione tra la sperimentazione contemporanea della psichedelia più fuzzy, dei vocalizzi eterei dell’easy listening e dell’elettronica pionieristica e l’elemento gotico, che si rispecchia nella ripresa di canoni o strumentazioni barocche (clavicembalo) in linea con la musica popolare a cavallo tra ’60 e ’70.

Lo scarabeo sotto la foglia di Gio Ponti e Nanda Vigo è protagonista de La notte che Evelyn uscì dalla tomba (1971) di Emilio P. Miraglia.

L’esempio perfetto, tanto sul piano stilistico che sonoro, è La notte che Evelyn uscì dalla tomba, di Emilio P. Miraglia, regista elusivo che firmò anche un altra pietra miliare del genere: La dama rossa uccide sette volte; le cui colonne sonore sono entrambe incluse nella raccolta CAM Sugar PAURA.

Le riprese si dividono in un continuo susseguirsi di ambienti iscrivibili alla tradizione gotica dell’horror e altri che celebrano il gusto del design italiano dei primi anni ‘70, tanto innovativo quanto i film di Miraglia. Tra i set scelti dal regista, c’è infatti lo Scarabeo sotto la foglia, la villa progettata tra 1964 e 1968 da Gio Ponti e Nanda Vigo nei boschi di Malo, provincia di Vicenza. L’edificio nacque come progetto offerto da Ponti ai suoi lettori sulle pagine di Domus. Tra questi, il collezionista Giobatta Meneguzzo colse la sfida finanziando i lavori per una residenza privata capace anche di accogliere la sua collezione d’arte. Nanda Vigo, che già aveva collaborato con il designer e che proprio in quegli anni stava mettendo a punto la sua cifra stilistica, si occupò invece degli interni.

Il risultato è una casa unica nel suo genere. Se la forma dell’edificio sposa il tratto affusolato e Lecorbuseriano di Ponti, presentando – come suggerisce il nome stesso – la silhouette di uno scarabeo con una copertura ellittica a foglia, gli interni sono un manifesto dello stile Vigo. Le piastrelle in Gres 20cmx20cm rigorosamente bianche creano un effetto straniante e avvolgente, ulteriormente esaltato dagli ambienti cronotopici, ovvero le sculture-superfici ottiche cifra della designer. Il clinico e cinetico candore delle pareti pensate da Vigo – impreziosite da opere come i fiammiferi della serie Seita di Raymond Hains e poi Baj, Schifano, Rotella e Gruppo Zero tra gli altri – diventano la superficie perfetta per esaltare i contrasti cromatici con gli schizzi di sangue della pellicola. Non stupisce che negli anni a venire altri progetti della designer troveranno applicazione come set per film italiani che sfidavano le percezioni visive e cinematografiche del tempo. Ne sono esempio la Casa Gialla ne L’Assassino è costretto ad uccidere ancora e la Casa Blu in Milano rovente.

Sempre nel vicentino, a Thiene, è sita Villa Ponte Colleoni ovvero il castello che rappresenta la parte gotica delle ambientazioni. Anche qui non mancano gli elementi modernisti come il plastico televisore Brionvega a fare da contrasto con gli opulenti saloni e le scene saffiche, in linea con il revivalismo Sacher-Masoch celebrato dalle popolari riviste proibite dell’epoca. 

Negli horror italiani il modernismo fa da contraltare alle ambientazioni gotiche della tradizione, come ne La notte che Evelyn uscì dalla tomba (1971).

Il gusto di Miraglia echeggia nelle prime pellicole di Dario Argento della cosiddetta Trilogia degli Animali, che consolideranno definitivamente le peculiarità dello spaghetti horror, come lo ribattezzeranno gli americani innamorati del genere.

Anche Argento, come Miraglia e Bava, insegue una medesima tensione tra elementi stilistici. La galleria d’arte del primo omicidio de L’uccello dalle piume di cristallo e gli interni della villa dei giovani musicisti di 4 mosche di velluto grigio trovano un contraltare nello stile Liberty e Art Deco che il regista ricerca per evocare atmosfere spettrali ed evocative di un passato maledetto riconducibile alla letteratura gotica. 

Argento ricerca questi stilemi nell’edilizia di Torino – città esoterica per eccellenza – per esempio in Villa Scott di Pietro Fenoglio per Profondo Rosso (1975), e della sua Roma, nel quartiere eclettico Coppedè. Il progetto incompiuto del’omonimo architetto Gino Coppedè non a caso è più volte stato impiegato come set nel cinema horror, come ne Il profumo della signora in nero (1974) di Francesco Barilli. L’Art Deco torna poi a essere protagonista in Suspiria (1977) grazie al set design di Giuseppe Bassan, dove gli elementi di arredo come porte, superfici vetrate e tappeti diventano elementi subliminali e incidenti alla narrazione.

Soluzioni progettuali e innovazioni stilistiche che celebrano la liaison del nostro horror con il design modernista e, soprattutto, la volontà di svuotare la violenza dalle connotazioni più sadiche, elevandola a opera stilistica assoluta.

Immagine di apertura: Sei donne per l’assassino (1964), Mario Bava, frame dal film.