Quando i Pink Floyd e Piero Umiliani suonavano lo stesso synth
Il compositore è stato un pioniere della musica elettronica, in una stagione culturale in cui l’Italia e i suoi sintetizzatori dialogavano con il resto del mondo e con le rock star internazionali.
È una tarda mattinata del 1970, o forse 1971. A Londra il cielo è terso ma irrequieto. Così si sente anche l’uomo che ha appena parcheggiato la sua Jaguar XJ6 non lontano dalla riva nord del Tamigi. Il suo volto gioviale, dai tratti mediterranei di quelli che a Londra si vedono soprattutto tra i caffè di Soho e le vecchie case in mattoni di Farringdon, il quartiere italiano, cela trepidazione. È arrivato nella capitale inglese dopo aver guidato da Roma, insieme alla moglie Stefania a fare da navigatore, con le cartine stradali e il London A to Z, piegati e ripiegati, a occupare un’ampia porzione dell’abitacolo, e una certa attenzione maniacale a non sporcare i sedili in pelle color tabacco. È l’auto di qualcuno che nella vita, si potrebbe affermare, ce l’ha fatta.
L’uomo, sulla quarantina, di professione fa il compositore, di colonne sonore e musiche per sonorizzazioni radio e tivù. Sebbene alcuni dei suoi dischi siano firmati Moggi, M. Zalla o Ingegner Giovanni & Famiglia, risponde al nome di Piero Umiliani. All’epoca uno dei nomi di riferimento nell’industria cinematografica italiana, seconda solo a quella statunitense per quantità di pellicole prodotte.
A Londra Umiliani è arrivato per una questione di primaria importanza, tanto da non fidarsi nemmeno dell’aereo: acquistare il suo primo sintetizzatore, più precisamente il VCS 3 della EMS. Lo sta andando a ritirare direttamente dalle mani del suo inventore, l’ingegnere Peter Zinovieff.
“Dopo due giorni di viaggio si trovò davanti alla casa di Zinovieff, una bella abitazione, e bussò alla porta, dove gli aprì un uomo dall’aria stralunata con tutti i capelli ritti. Dopo delle spiegazioni alquanto sommarie, Piero si fece consegnare il libretto delle istruzioni, infilò il synth nella custodia e tornò a Roma felice,” ricorda oggi la figlia Elisabetta.
Quel viaggio a Londra era stato pianificato a lungo, con una dovizia oggi inimmaginabile tra voli low-cost e shopping digitale. Umiliani si era avvalso della consulenza di Paolo Ketoff, radici d’oltrecortina e una carriera da ingegnere del suono a Roma presso la RCA – silenziosa come quella di una spia della guerra fredda, ma pionieristica. Era stato Ketoff, già inventore nel 1963 del Synket, a suggerire lo strumento a Umiliani, desideroso di esplorare i nuovi suoni sintetici, e a procurargli l’appuntamento con il collega inglese. Sempre a Ketoff si deve la costruzione della custodia del synth, per cui Umiliani acquistò anche la tastiera – oggi piuttosto rara da reperire.
Ascolta Synth Utopia, la raccolta di utopie elettroniche del catalogo CAM Sugar a cura di Machinedrum.
L’epifania elettronica di Umiliani era avvenuta poco tempo prima, ascoltando l’album Switched-On Bach di Wendy Carlos, una rilettura al Moog delle composizioni del maestro della classica – disco che a fine anni ‘60 riscosse un certo successo, lanciando un trend tra i compositori più maturi.
“Intere notti [Piero] le trascorse nel suo studio per creare nuovi suoni e spesso rientrava a casa alle 5 del mattino,” racconta sempre Elisabetta che insieme alla sorella Alessandra è oggi tutrice del Sound Work Shop, lo studio che Umiliani progettò proprio insieme a Ketoff a Roma, per registrare i suoi dischi, specialmente quelli più sperimentali. Uno di questi, il primo inciso con il VCS 3 londinese, è Switched-On Naples del 1972, un omaggio etereo ed in chiave partenopea al lavoro di Carlos su Bach. Seguiranno gli elettronici To-day’s Sound e Bon Voyage !!! (entrambi con artwork illustrati da Sandro Lodolo, grafico e animatore nel cui studio si era formato Pino Pascali), e ancora L’uomo e la città, Atmospheres e tanti altri.
Negli stessi anni lo stesso modello di sintetizzatore è altrettanto amato da altri artisti, lontanissimi sia geograficamente che musicalmente da Umiliani, come Pete Townshend (The Who), King Crimson, Moody Blues, Roxy Music, Led Zeppelin e soprattutto i Pink Floyd che lo useranno in molti dei loro album, come Meddle, Dark Side of the Moon e Wish You Were Here in “Shine On You Crazy Diamond (pt.6)”.
I synth, agli inizi degli anni ‘70, negli Stati Uniti, in Inghilterra ma anche in Germania sono infatti per lo più sinonimo con la musica giovane, ovvero con il rock progressivo e la kosmische musik. Non a caso, il giovane Franco Battiato che agli esordi si rifaceva proprio a quei suoni, andrà anch’egli in missione a Londra a bussare alla porta di Zinovieff per procurarsi un VCS 3, su cui improvvisa sul palco del Festival del Re Nudo.

Fotografia su gentile concessione di Elisabetta e Alessandra Umiliani.
In Italia, infatti, il synth viene approcciato in una maniera tutt’altro che codificata, proprio attraverso l’esperimento, quasi ludico, che porta a risultati quantomeno inaspettati e innovativi.
I pionieri sono, sorprendentemente, signori distinti (e in alcuni casi anche signore, analogamente a quello che accadeva a Londra presso il Radiophonic Workshop della BBC), in giacca e cravatta. Tra questi c’è Franco Micalizzi, uno tra i primi a importare il Moog, che poi veniva prestato di artista in artista contribuendo a rivoluzionare il modo di fare musica nelle colonne sonore. Ma anche nomi come Marcello Giombini, padre della Messa Beat, Giampiero Boneschi, Fabio Frizzi – fratello maggiore del più noto conduttore televisivo, e ovviamente Piero Umiliani. Le loro musiche dal catalogo CAM Sugar sono state ora riunite nella raccolta digitale Synth Utopia, curata dall’artista e produttore americano Machinedrum.
La commistione tra sintetizzatori e musica prog, nel Belpaese, d’altronde passa proprio attraverso i compositori di colonne sonore, che stringono sodalizi tanto inaspettati quanto entusiasmanti con i complessi giovanili. Su tutti, Luis Enriquez Bacalov in dialogo con Osanna (Milano Calibro 9) e New Trolls (Concerto Grosso per i New Trolls), ma anche l’incontro-scontro tra Giorgio Gaslini e i Goblin in Profondo Rosso.
Entro la metà degli anni ‘70 la synth mania è esplosa anche in Italia. Tutte le vecchie aziende di fisarmoniche, che nel decennio precedente già avevano cambiato pelle per rispondere alla crescente domanda di organi e strumenti a corda per i complessi Beat, affrontano un’altra rivoluzione, quella sintetica. Si trovano tutte nelle Marche, che diventano così la regione italiana con più alta concentrazione di produttori di sintetizzatori. Dai più celebri Eko, Grb e Farfisa, si passa per un’infinità di marchi oggi apparentemente dimenticati ma di culto: Elka, Elex, Crumar, Milton, Solton, nomi esotici dietro a cui si la visione pionieristica di ingegneri del suono incontra la vecchia manifattura di strumenti per la musica popolare.
Quando si parla di synth made in Italy, è impossibile non citare strumenti come l’Eko Computer Rhythm del 1972, una delle prime e più visionarie, nonché rare, drum machine al mondo, di cui sono noti solo 15 esemplari. Ma anche lo Spirit della Crumar (1983), co-progettato da Bob Moog, inventore dell’omonimo synth, o il Rhapsody 610 della Elka (1975), amato dai pionieri dell’elettronica internazionale, come Tangerine Dream e Jean-Michel Jarre.
Oggi, a preservare e raccontare questa storia c’è il Museo del Synth Marchigiano, collezione unica al mondo di sintetizzatori progettati e assemblati nelle Marche, e progetto itinerante che dal 2008 si è attivato in varie sedi attraverso la regione.
Come testimonia la popolarità internazionale del museo, la stagione del synth in Italia non è stata solamente un fever dream. Questi strumenti si sono poi affermati anche nella musica popolare e ramificati attraverso generi, diventando cardini per la new wave italiana e, soprattutto, per l’Italo Disco. Ma questa è un’altra storia.
Immagine di apertura: Piero Umiliani nel suo Sound Work Shop con il VCS 3 della EMS. Fotografia su gentile concessione di Elisabetta e Alessandra Umiliani.