“Non mi sono mai interessato alle colonne sonore”. Il compositore di The Brutalist Daniel Blumberg racconta come ha trovato il suono delle musiche premio Oscar.
Abbiamo intervistato il compositore dietro la colonna sonora di The Brutalist, la cui audacia artistica e visione radicale affondano le radici in un caffè di East London, e anche nel calcio.
The Brutalist di Brady Corbet è stato uno dei film più chiacchierati (ed acclamati) della stagione sin dal suo debutto alla Biennale di Venezia, dove ha conquistato tre premi, tra cui la Coppa Volpi sia per la migliore interpretazione femminile che per quella maschile. La pellicola di tre ore e trentacinque minuti, che racconta la storia dell’architetto ungherese-ebreo László Tóth (Adrien Brody) e della sua ricerca del sogno americano nel dopoguerra, ha recentemente trionfato ai BAFTA e anche agli Oscar, dove ha portato a casa tre statuette su dieci nomination. Tra queste c’è anche quella per la Miglior Colonna Sonora Originale, riconoscimento seguito in poco più di una settimana a quello di BAFTA, e che certifica come le musiche composte da Daniel Blumberg siano fondamentali per sviluppare l’estetica austera del film e la sua profonda risonanza emotiva.
Londinese, classe 1990, il compositore arriva da un background lontano dalle colonne sonore – che spazia dall’indie rock a ricerche approfondite sul suono e sull’acustica, maturate nel contesto creativo del Cafè Oto di Londra Est. La sua musica per The Brutalist è un viaggio non solo nel tempo, ma anche nelle emozioni e nella materia, che rispecchia tanto i sette anni di gestazione del film che il suo arco narrativo di quattro decenni. Una partitura audace, di 81 minuti, in cui trame dissonanti e motivi elegiaci si intrecciano, in una costante esplorazione della tensione tra rigidità e intimità. L’uso quasi scultoreo del suono celebra la bellezza austera dell’architettura brutalista, ma al tempo stesso fa da cornice esemplare alle tematiche chiave della pellicola di Corbet: l’ambizione, lo sradicamento e il peso della creatività.
Al fianco di Blumberg, che oltre al ruolo di co-produttore ha anche inciso pianoforte, armonica, tastiere e sintetizzatori, un parterre de rois di musicisti, selezionati personalmente dal compositore. Tra questi, l’ottantottenne pianista britannico John Tilbury, Vince Clarke degli Erasure (synth e drum machine), i sassofonisti Seymour Wright ed Evan Parker, il percussionista Michael Griener, il contrabbassista Tom Wheatley e tanti altri ancora. Molte delle collaborazioni sono frutto della decennale frequentazione di Blumberg con il Cafè Oto, luogo cardine per la carriera dell’artista in cui la sua sensibilità artistica si è affinata, dove sono avvenute epifanie musicali e, soprattutto, dove sono state registrate tutte le parti di pianoforte. Durante il discorso di fronte la platea dell’Academy Blumberg ha dichiarato: “Il suono che sentite in The Brutalist è il suono di musicisti radicali, che hanno lavorato duro e che da anni si dedicano a fare musica senza compromessi”.
Abbiamo raggiunto Daniel nel giorno del suo compleanno, pochi giorni dopo la vittoria ai BAFTA e poche ore prima di imbarcarsi per Los Angeles. Il suo lavoro per The Brutalist di Corbet sembra aver lasciato un segno tra i critici, così come negli scorsi anni hanno fatto i suoi album da solista, a partire dall’esordio Minus nel 2018. Blumberg, tuttavia, non si è mostrato particolarmente impressionato dal recente premio, trovando invece conforto nel discutere, con grande dovizia, della sua collezione di caffettiere italiane, tra cui un modello Alessi a cui è particolarmente legato. Il calcio è stato un altro tema centrale della conversazione e di come abbia anch’esso giocato un ruolo durante la realizzazione della colonna sonora.
Ci siamo seduti in conversazione con Blumberg per approfondire la gestazione della colonna sonora e il suo intreccio tematico con la narrazione del film.
Lorenzo Ottone: La colonna sonora stabilisce una certa tensione tra rigidità e intimità, evocando la bellezza austera del design brutalista, con il pianoforte come strumento cardine. In che modo la sfera personale ed emotiva ha saputo instaurare un dialogo con quella severa e monolitica che definisce l’architettura modernista e brutalista?
DB: Ero affascinato da questo dualismo tra il lato emotivo e l’immobilità monolitica del pianoforte, il dualismo tra il calore del personaggio e l’audacia di ciò che sta creando. L’idea era quella di esplorare il viaggio dalla mente di László al cemento. Bisogna considerare un equilibrio tra tutti questi elementi quando si cercano suoni che possano sostenere la narrazione del film e ciò che il regista sta cercando di esprimere, che è davvero tanto.
LO: Come hai affrontato questo discorso nel pratico?
DB: Ho affrontato la registrazione della parte più intima [della colonna sonora] riflettendo sull’intimità dell’architetto, da solo, in quanto artista. Ho registrato il pianoforte di John Tilbury in relazione a questa esperienza, in modo che si potesse davvero percepire la sua presenza e sentire anche gli scricchiolii dello sgabello del pianoforte.
E poi, all’estremo opposto, c’era il pianoforte che ho registrato al Café Oto, con circa 16 microfoni, due dei quali erano U-89, microfoni a diaframma piuttosto grande usati spesso per le voci e posizionati per coprire diversi spazi del pianoforte.
Il mio istinto iniziale, dopo aver letto la sceneggiatura, è stato che si potesse ottenere molto dal pianoforte. Quindi molti di quei colpi profondi, quei suoni percussivi imponenti che sembrano enormi, provengono tutti dalla preparazione del pianoforte, fatta nello stile di John Cage, con monete e viti.
LO: Mi affascina capire come hai provato a restituire, attraverso il suono, la matericità dell’architettura.
DB: Per la prima volta da quando faccio musica ho usato un click, perché metà della colonna sonora è musica molto costruttiva. Questo significa che è ritmicamente molto precisa, strutturata su una griglia con una base solida, ma ovviamente ci sono elementi che scivolano dentro e fuori da essa.
LO: Questo cambiamento è nato dalla necessità di adattarsi al montaggio del film o è stata una scelta artistica?
DB: No, è stato voluto concettualmente in rapporto a ciò di cui parlavi. Si trattava di concepire un suono che corrispondesse a un certo tipo di architettura, tenendo conto, ad esempio, del fatto che László ha studiato al Bauhaus.
LO: E sei addirittura andato alle cave di marmo di Carrara per catturare il suono della materia…
DB: Ero interessato a fissare l’idea dello spazio e di come suonasse. Già prima delle riprese ho iniziato a interrogarmi su come suonassero i luoghi, e ad informarmi con Brady sulle location così da capire come potessero suonare.
LO: Quanto tempo hai trascorso a registrare a Carrara?
DB: Ho avuto accesso solo per un giorno. È stato un processo semplice: punti il microfono e registri l’eco, poi crei un riverbero da quello. Si trattava principalmente di sperimentare con diverse posizioni del microfono.
LO: È un approccio molto concettuale e radicale per quello che potrebbe sembrare un film commerciale, considerando tutte le sue nomination, ma anche tenendo conto del tuo background da artista indipendente.
DB: Ovviamente è un film narrativo, ma penso che Brady sia molto radicale ed estremamente sperimentale. Lo colloco sempre nella stessa categoria di Carax e di quei registi che spingono la narrazione in flussi innovativi. Ho sentito un’affinità con lo stile di regia di Brady nel modo in cui scrivo canzoni. Fin dal nostro primo incontro abbiamo sempre parlato dell’idea del ritornello e di quanto tempo puoi aspettare prima di dare al pubblico la ricompensa del ritornello. Il tema di un film si rapporta al ritornello di una canzone: quando arriva, sai che è il momento per catturare e incanalare l’attenzione del pubblico.
LO: Tu e Brady Corbet avete collaborato strettamente durante la realizzazione della colonna sonora, e il film ha avuto una gestazione molto lunga, circa sette anni. A che punto del processo creativo hai iniziato a lavorare al progetto?
DB: Brady e io passavamo molto tempo insieme, da amici, a parlare già prima del film. Quando ha finito la sceneggiatura, ho fatto una prima sessione al pianoforte del Café Oto per trovare la dimensione sonora del film, anche perché voleva realizzare un trailer per raccogliere fondi per finanziare il progetto. Questo è successo alcuni anni prima che il film entrasse in produzione, perché poi è stato ritardato a causa del COVID. E da quel momento in poi ho iniziato a lavorarci davvero in modo intenso.
LO: Gli eventi narrati nel film si sviluppano nell’arco di quarant’anni, così come la musica. Ad esempio, hai deciso di scrivere brani originali in stile jazz, come “New York” e “Jazz Club”, invece di usare musica di repertorio. Lo stesso è stato fatto per il finale del film, ambientato negli anni ‘80. L’idea di poter attraversare generi diversi è stato più una sfida o qualcosa di stimolante poter attraversare generi diversi?
DB: È stata una sfida, ma penso che la parte degli anni ‘80 sia stata la più divertente. Ero entusiasta del fatto che Brady passasse dal VistaVision al Betamax per le riprese. Il linguaggio visivo cambiava tecnicamente, quindi ho pensato che fosse una licenza per farlo anche con la musica. Ero molto emozionato dall’idea che il pubblico avrebbe ascoltato musica acustica per tre ore e venti minuti e poi, improvvisamente, sarebbe arrivato il primo suono digitale proprio nell’ultima vera svolta della storia. Ho finito quelle registrazioni proprio insieme Brady e al mio coinquilino: è stato un bel modo di concludere il processo creativo, perché eravamo seduti attorno al mio Moog, a divertirci.
LO: E per quanto riguarda gli aspetti più impegnativi?
DB: Penso che una delle difficoltà sia stata mettere insieme le band per le diverse atmosfere. Ad esempio, per la scena jazz e poi per il salto temporale di dieci anni a New York. Mi piace il processo di scegliere con quali musicisti lavorare, soprattutto se anche loro hanno piacere di farlo con me. È bello.
LO: Questa è il tuo secondo lavoro per un film. Ti sei lasciato ispirare da qualche compositore o colonna sonora del passato in particolare?
DB: Sai una cosa? In realtà non mi sono mai interessato molto alle colonne sonore. Le scopro attraverso i film, perché amo il cinema. Ricordo di aver chiesto a Brady se avessi dovuto ascoltare qualche colonna sonora prima di iniziare a lavorare alla musica, e lui mi ha detto: “Assolutamente no” [ride].
LO: Immagino che questo ti abbia dato molta libertà creativa.
DB: Di recente la BBC mi ha chiesto quali fossero le mie cinque colonne sonore preferite, ed è stato interessante pensarci. Ne ho trovata solo una: The Naked Island [di Hikaru Hayashi, 1960]. Ho anche menzionato la musica di Berlin Alexanderplatz [di Fassbinder], ma poi mi sono reso conto che era solo perché il menu del DVD è rimasto in loop nel mio appartamento per due settimane, e mi ci addormentavo insieme.
LO: Prima di lavorare alle colonne sonore, hai vissuto molte esperienze musicali diverse. Hai suonato in band indie rock come Yuck e Cajun Dance Party, ma hai anche fatto una grande ricerca sul suono e la performance sia da solista che con altri musicisti. Queste esperienze hanno finito per influenzare il tuo lavoro per The Brutalist?
DB: Le cose che ho fatto da giovane le metto nella stessa categoria delle lezioni di nuoto o di altre cose che facevo da bambino. Per me il mio lavoro è iniziato quando, a 22 anni, sono stato introdotto al Café Oto. Un mio amico mi portò lì per un concerto, ed è stata quasi un’epifania. È stato un po’ come quando ho visto per la prima volta i film di Kieślowski a 17 anni. D’un tratto sono stato introdotto alla musica improvvisata, e tutto ha iniziato ad avere senso per me. Era legato al mio modo di disegnare, che è una cosa che ho sempre amato fare. Da quel momento ho iniziato a frequentare il Café Oto e ho conosciuto [il sassofonista e session man sulla colonna sonora] Seymour Wright, che ha avuto un grande impatto sul mio modo di lavorare.
LO: A proposito di disegno, hai un ritratto di Son, il giocatore del Tottenham, realizzato da Rose Wylie sulla tua parete. Sei appassionato di calcio?
DB: Sì, mi piace molto il calcio, tifo per il Tottenham. Tu?
LO: Torino.
DB: Oooh, avete avuto quel portiere inglese per una stagione, vero?
LO: Joe Hart? La gente lo adorava.
DB: Ho una dipendenza dal telefonare a Talk Sports, forse perché mio padre l’ascoltava sempre. Ricordo che una volta stavamo registrando nel mio appartamento e il violinista mi ha chiesto se potevo abbassare la radio. Non mi ero nemmeno reso conto che fosse accesa, per me è una cosa naturale averla in sottofondo.
LO: Il calcio ha fatto parte anche del processo di registrazione di The Brutalist?
DB: Durante la registrazione di The Brutalist ho suonato molto con Tom Wheatley, il contrabbassista, che appare anche nella scena del jazz club nel film. In quel periodo abbiamo fatto un concerto a Berlino come duo e, mentre provavamo, c’era una partita del Tottenham che ovviamente volevamo vedere. Così abbiamo fatto un trio di 90 minuti con la partita. È stato incredibile, perché suonavamo seguendo le dinamiche del match. Sarebbe bello farlo per un’intera stagione.
Immagine di apertura: Daniel Blumberg. Fotografia di Ilana Blumberg.