Di Casciavit e Bauscia

Testi di Davide Coppo, Federico Corona
Photography by Francesca Scandella
Styling by Anna Dibernardo

Cosa resta e cosa è cambiato del modo di vivere il derby di Milano a oltre quarant’anni da Eccezzziunale…veramente: Bauscia e Casciavit a confronto.

C’è stato un periodo, a inizio anni ‘80, in cui il cinema italiano amava raccontare, a tutta la nazione, trasversalmente alle sue classi sociali, fenomeni urbani, con occhio a metà tra la sociologia spiccia e la gag da cabaret. C’è stato il racconto degli Yuppies, l’epopea delle vacanze sulla neve e di quelle al mare e, inevitabilmente, anche la stagione d’oro delle curve calcistiche, il momento di massima espansione del movimento ultras. Dietro a tutti questi film, un solo nome, quello di Carlo Vanzina, che raccoglie l’occhio da sociologo del padre Steno, che tanto aveva contribuito a quel cinema che tra il dopoguerra e la crisi petrolifera, passando per il miracolo economico, si era divertito a portare sul grande schermo vizi e virtù degli italiani.

Eccezzziunale…veramente esce nelle sale nel marzo 1982, diventando così il primo film a trattare il tifo organizzato, il fandom calcistico, dalla prospettiva della commedia. Così facendo, il suo linguaggio iniziatico viene decodificato – certo anche caricaturizzato –, ma senza dubbio se ne offre una celebrazione sopravvissuta da oltre quarant’anni a tutti gli stravolgimenti del calcio e a tutto lo sprezzante snobismo della critica d’essai.

Il film, dunque, arriva là dove opere precedenti, dal taglio prettamente documentaristico come Ragazzi di Stadio di Daniele Segre (1979) non erano riuscite. Tanto che oggi, il milanista Donato Cavallo, l’interista Franco Alfano, e lo juventino Tirzan – ovvero i personaggi interpretati da Diego Abatantuono, affiancato nella pellicola da Massimo Boldi, Teo Teocoli, Guido Nicheli, Stefania Sandrelli e Renato d’Amore – continuano a incarnare dei baluardi iconografici e attitudinali per i tifosi delle rispettive squadre.

All’alba del derby della Madonnina ed in occasione dell’uscita della colonna sonora CAM Sugar del film composta da Detto Mariano e disponibile per la prima volta in assoluto nella sua versione integrale in vinile e digitale, i giornalisti e autori Davide Coppo e Federico Corona, rispettivamente tifosi di Milan e Inter, raccontano cosa resta e cosa è cambiato oggi di quel modo di vivere la fede laica nei confronti della loro squadra, di quell’essere Casciavit e Bauscia, diavoli e biscioni.

Essere Casciavit

di Davide Coppo

Donato, il protagonista di Eccezzziunale… veramente, si fa chiamare “il Ras della Fossa”, eppure è il capo delle Brigate rossonere. Poco importa, per la confusione: c’è in realtà stato un periodo, che è poi il periodo della mia educazione sentimentale, i primissimi anni del Duemila, in cui Fossa e Brigate erano due facce della stessa identità. Questa identità era la curva sud dello stadio di San Siro, in senso stretto, pratico, concreto. Erano anche la mia, di identità: di ragazzino che, come succede sempre, ne deve cercare una, e finisce che la trova, anche, in piedi sui seggiolini di uno stadio.

Mi sono avvicinato al calcio tardi, per essere un bambino cresciuto a Milano. Soltanto a dieci anni ho deciso di concentrarmi per farmi piacere quel gioco lento e noioso, e ci sono riuscito davanti a uno dei momenti più tragici per il Milan: nell’aprile del 1997, quando a San Siro la Juventus ha battuto i rossoneri per 1-6. Come se l’energia catartica sviluppatasi da quel baratro di umiliazione – per una squadra che soltanto tre anni prima era campione d’Europa – fosse stata in grado di imprigionarmi e trascinarmi a fondo.Dai 14 anni in avanti, fino quasi ai 30, quel nome, “Fossa”, è stato sinonimo di fine settimana, di partite a Milano e in giro per l’Italia e per l’Europa. No, non è vero, in realtà. Perché la vera Fossa si sciolse dopo poco, nel novembre del 2005: eppure quel primo lustro dietro la bandiera con il leone stilizzato valeva quanto una professione di fede imperitura, il nostro Takbir calcistico adolescenziale. Quel leone, sulle spalle e i bicipiti e i pettorali di diversi amici, diventò anche un tatuaggio, oggi scolorito ma non rimpianto.

Il milanismo di quelli nati negli anni Ottanta, come me, è una strana dicotomia di orgogli di segno opposto. Quello proletario e quello elitario. Casciavit è una parola che mi è sempre piaciuta, e naturalmente, se giochi a fare l’ultras e il teppista, ti esalta essere associato a quello strumento furbo e versatile, all’umiltà della strada e della fatica, anche se la fatica tu non la vuoi fare nemmeno un’ora al giorno su un libro di matematica. E poi c’era il campo: nei momenti più delicati della formazione del carattere di una persona – le scuole elementari, le medie inferiori e il liceo – io e i miei coetanei abbiamo beneficiato di una fortuna rara. La squadra che ci eravamo scelti è riuscita a vincere cinque campionati, quattro Supercoppe, due Champions League (più una terza nei primi anni universitari). Stare dalla parte dei vincenti calcistici, nel delicato gioco di equilibri delle scuole dell’obbligo, è spesso un requisito fondamentale per non finire in fondo a una catena alimentare che, in quelle età, sa essere spietata. Anche negli anni più bui del milanismo – i trionfi dell’Inter post-Calciopoli – ci si poteva facilmente aggrappare a quello che non è uno slogan ma un’intima convinzione, un sentimento di predestinazione sì borioso che ci fa pensare di essere una sorta di squadra eletta, destinata alle imprese internazionali (“preferisco la Coppa”) anziché a quelle (più meschine) legate ai confini nazionali. Come ha fatto una squadra proletaria a trasformarsi nella squadra che per anni si è cucita sulle maglie la frase “Il club più titolato del mondo”? Quanto c’entrano con questo cambio di paradigma i 30 anni di Silvio Berlusconi?

Del Milan berlusconiano un milanista di oggi ha di certo preso molti tic caratteriali: l’abitudine alla grandezza, un certo snobismo nei confronti delle rivali – sia italiane o internazionali –, soprattutto una fiducia nella predestinazione che si lega, da un lato, alla convinzione di essere una sorta di squadra eletta tra le squadre, dall’altro allo stoicismo, per cui una stagione sbagliata può capitare, ma sarà riscattata, inevitabilmente, da un trionfo nel futuro più prossimo.

Milano, negli ultimi quindici anni, è cambiata tanto quanto il Milan: è sempre più internazionale, e questa è una cosa positiva e negativa insieme, si è fatta estroversa, meno elegante e più colorata, anche più cafona. Ha molti abitanti effimeri, un turismo mordi e fuggi che, calcisticamente, si manifesta in tifosi sempre più occasionali. La squadra ha una proprietà instabile, forse americana, forse lussemburghese, forse, nel futuro, araba. Il concetto di identità e identitarismo, nel calcio, è fondamentale e non dovrebbe essere controverso quanto lo è in politica. Le radici servono a creare una comunità, la comunità crea quel non-so-che che si riverbera nell’immaginario di avversari e giocatori per generazioni. Quanto sono profonde le radici del milanismo, per poter rimanere quello che è stato nei suoi anni migliori? Forse è anche per avere un sostegno in questi anni difficili che, dopo decenni di assenza, sono tornati in curva due vecchi striscioni. Si legge: Fossa dei Leoni, e Brigate Rossonere.

Essere Bauscia

di Federico Corona

In una sequenza di Eccezzziunale…veramente, Franco Alfano (Diego Abatantuono) sta assistendo al derby dal primo anello di San Siro insieme a Teo (Teocoli) e Massimo (Boldi), i suoi amici interisti. Stretti nei loro drappi nerazzurri scherzano, si perculano, si prendono a colpi di giornale in testa, insomma si comportano come fanno tutti i giorni al bar di Franco nella loro quotidianità ciondolona. A un certo punto però diventano seri, e con lo sguardo rivolto al campo commentano altezzosi che «bisogna assolutamente marcare a zona» e che «tutto ruota attorno al punto di vista atletico».

È una scena in cui qualunque tifoso interista può riconoscersi, anche a quarant’anni di distanza da quando è stata pensata e girata. Non importa se il contesto è cambiato radicalmente. Se in campo non ci sono più bandiere come i fratelli Baresi, se San Siro ha fatto in tempo a implementare il terzo anello e diventare vecchio, se ora sul seggiolino davanti al tuo puoi trovare un ragazzo australiano che durante la partita si alza per andare a prendere un hot dog, come se fosse allo Staples Center.

Quel modo critico e superbo di commentare l’Inter, tipico di chi pensa di saperla sempre più lunga degli altri, resta un lessico familiare. Un residuo di quello che un po’ solennemente chiamiamo dna del tifo. L’ultimo afflato di quell’identità bauscia con cui per quasi mezzo secolo è stato rappresentato il tifoso interista, prima che le trasformazioni sociali e gli sviluppi sportivi annacquassero il profilo di questo borghesuccio un po’ sbruffone che non perde occasione per sbatterti in faccia la sua superiorità con un marcato accento milanese.

Ogni club affonda le radici in una precisa cultura, forgia un immaginario in cui il tifoso possa riconoscere la sua essenza. Ma tratteggiare contorni definiti e duraturi di una fede, tranne in alcuni casi, è un esercizio bonariamente pretestuoso di cui il calcio si nutre per creare appartenenza. Sono così e per questo sono diverso da te, sono speciale. È questa la sana illusione del tifo, che in realtà ha un’identità mutevole.

Con tratti e riferimenti solidi, ma cangiante. Basti pensare allo stemma dell’Inter, che in 116 anni di storia è cambiato sedici volte, rivisitato di continuo per motivi storici, politici, culturali e infine commerciali, riducendosi all’osso nella dittatura minimalista che ha brutalizzato l’estetica contemporanea e cancellato il calore di quell’oro che rappresentava il cielo stellato della notte di fondazione del club.

Anche l’identità bauscia ha subìto scossoni e restauri. All’inizio degli anni Ottanta, l’epoca in cui si svolgono i fatti narrati nel film, la dicotomia con i milanisti casciavìt è idealmente corrosa dal tempo. Milano non è più una città operaia divisa tra industriali e salariati, non è più quella delle fabbriche ritratte da Gabriele Basilico. Il boom economico e l’emigrazione interna del secondo dopoguerra hanno rimodellato il tessuto sociale e creato benessere diffuso. Eppure il ritratto dell’interista bauscia ha in qualche modo resistito, tenuto in vita dal romanticismo che ancora permea il calcio e dai suoi più illustri cantori, come Gianni Brera. Non solo, ha l’occasione di proliferare. Il Milan se la passa male, è retrocesso due volte nel giro di tre stagioni: un ottimo pretesto per alimentare la spocchia interista. Siamo agli albori della Milano da bere, del rampantismo yuppie che trasforma la città in culla delle grandi opportunità, terreno fertile per chi ha la bauscia, la bavetta della parlantina facile.

Emblematico in questo senso il passaggio del film in cui Franco Alfano, sciarpa Burberry al collo e fare borioso, spernacchia il capo dell’autosalone in cui lavora perché i soliti amici gli hanno fatto credere di aver vinto al Totocalcio. Eppure il paradosso è dietro l’angolo. Da lì a pochi anni, come per uno scherzo del destino, l’ascesa del bauscia più bauscia di tutti, un bauscia quasi caricaturale per l’eccesso della sua immagine stereotipata, ribalterà la narrazione della rivalità calcistica cittadina e cambierà, almeno per un periodo, i connotati del tifo interista.

Gli scintillanti successi del Milan di Silvio Berlusconi elevano il club nell’aristocrazia del calcio mondiale e fanno sprofondare l’Inter in una subalternità inaspettata, specialmente nel primo decennio dell’era di Massimo Moratti. Le spese folli, il lungo digiuno di trofei, le tragedie sportive del 5 maggio e della semifinale di Champions League 2003, proprio contro il Milan che finirà per vincere la coppa. L’altezzosità che aveva contraddistinto il tifoso interista assume una nuova forma. Quella di chi esalta l’epica della sofferenza, la nobiltà della sfiga, la signorilità del fallimento. Di chi si fregia della definizione Pazza Inter per glorificare tutta la gamma di sentimenti che offre l’imprevedibile. Quella di chi prova un piacere quasi perverso a pensare che sicuramente le cose andranno male. Ma anche quella di chi rivendica una superiorità morale per non essere mai incorso in sanzioni per illeciti sportivi. Perdo ma vivo intensamente, perdo ma lo faccio con garbo, sembra incidere l’interista sulla sua nuova patente del tifo. A suo modo, sempre borghese. Sempre bauscia. La catarsi del Triplete e l’addio pochi anni dopo di Moratti, ultimo di una tradizione di presidenti milanesi, industriali, e innamoratissimi dell’Inter, sfumeranno anche questi nuovi tratti dell’interismo, senza però annebbiarli del tutto.

Oggi il tifo interista è in una fase nuova, meno vanitosamente pessimista e più unita, con i tifosi comuni che si stringono alla curva in cori cantati all’unisono con le torce del telefono accese come ai concerti. Ma in qualche modo tutto ciò che è passato resta e diventa simbolo, quelli di cui la cultura del tifo ha un tremendo bisogno per condire con il sentimento un’epoca calcistica ipercapitalista. E allora capita ancora di vedere coreografie dedicate a Peppino Prisco, epitome dell’interismo arguto, sarcastico e brillante. O altre in cui a corredo di un enorme biscione appare la scritta altisonante I Pussee Bej (i più belli), esposta in un derby del 2016 giocato dalle due squadre con una maglia praticamente identica, il cui il rosso della classe popolare e l’azzurro di quella agiata erano stati divorati dal nero.

Anche se l’immaginario romantico di Eccezzziunale…veramente si è eroso, anche se quel calcio più scalcinato, dozzinale, ma infinitamente più puro si è estinto, anche se in tribuna è più difficile trovare il camionista Tirzan seduto di fianco a Gianni Agnelli, ogni volta che si entra a San Siro, la fede accende il riverbero di un’identità condivisa. E troverai un bauscia che saprà spiegarti il perché.

La colonna sonora di Eccezzziunale…veramente di Detto Mariano è ora disponibile su camsugarmusic.com e su tutte le piattaforme digitali. La capsule collection dedicata al derby in collaborazione con Tacchettee è invece disponibile su tacchettee.it