Fellini, l’americano
Da Disneyland alla pop art, il regista ha avuto un tacito ma intenso rapporto con gli Stati Uniti. Lo raccontiamo in occasione del sessantesimo anniversario dell’Oscar a 8 ½.
Una sera di febbraio mi trovavo in compagnia, di fronte a un bicchiere di vino. La conversazione si è spostata su un signore molto amabile, cortese, irripetibile, che non esiste più da un pezzo: Federico Fellini. Lo spunto veniva proprio da questo articolo che avete iniziato a leggere e a cui avevo lavorato tutto il pomeriggio.
L’articolo – raccontavo alla persona seduta di fronte a me – intendeva partire da un episodio, ovvero la visita di Federico Fellini a Disneyland, in occasione dell’Oscar che gli venne assegnato nel 1957. Disneyland era stata aperta da giusto un paio di anni. Insieme alla moglie Giulietta Masina, Anthony Quinn e il produttore Dino De Laurentiis, Fellini era volato a Los Angeles il 27 marzo. Il 5 aprile avevano preso un volo di ritorno per l’Italia. Avrei voluto abbozzare un’ipotesi e provare a capire se qua e là esistevano tracce di un’influenza, diciamo, “americana” dentro l’opera di Fellini, forse proprio a partire dalle sensazioni e dalle impressioni registrate in quel viaggio.
La persona seduta all’altro capo del tavolo ha posato il bicchiere, ci ha pensato un po’, poi ha messo a fuoco un ricordo: “Ma certo, ma certo che esiste un’influenza americana. Pensa al grande cartellone pubblicitario che appare in Boccaccio ‘70. Non ricordi? Lo hai visto quel film? Hai presente il cartellone pubblicitario enorme, quello con Anita Ekberg sdraiata, col seno mezzo di fuori, che reclamizza la marca di latte? Quel cartellone non è, col suo gigantismo esasperato, un vero e proprio pezzo di pop art? Non è America allo stato puro?”. Ma ovviamente, ho pensato, è proprio così. È America allo stato puro.
Boccaccio ‘70, film a episodi a cui aveva partecipato anche Fellini,era uscito nel 1962 e nel 1962, guarda caso, inaugurava alla Sidney Janis Gallery di New York una mostra importante, la International Exhibition Of The New Realists, dove vennero presentati i lavori di alcuni futuri maestri della pop art, come James Rosenquist, Andy Warhol, Jim Dine, Charles Oldenburg e Roy Lichtenstein. Il cartellone pubblicitario di Fellini rientrava a pieno titolo nello zeitgeist che dall’altra parte del mondo aveva ispirato la nascita di una nuova estetica e di un nuovo sentire americano. La mia inchiesta si poteva dire conclusa: non solo l’America aveva fecondato l’immaginazione di Fellini, ma si può dire che Fellini aveva intuito, compreso e fatto proprio tutto il potenziale simbolico e fantastico del linguaggio pop pubblicitario, nella versione titanica e metropolitana della maxi-affissione. Nello stesso momento un gruppetto di artisti americani scopriva la seduzione degli oggetti prodotti in serie, del packaging, dei loghi commerciali e così via.
Nel 1987, nel corso di una lunga intervista tv, Federico Fellini aveva riflettuto sul suo rapporto con gli Stati Uniti e con l’immaginario americano. All’epoca aveva 67 anni. Il tono della voce si era fatto più soave, confidenziale e malinconico del solito. Con un pizzico di rimpianto, Fellini si era confessato anche sul tema dell’America e delle suggestioni che scaturivano dalle sue strade e dalle sue città: “Le seduzioni infinite e continue di un paese come l’America […] sembra un set fatto apposta per me, circense, fantascientifico […] molto seducente dal punto di vista figurativo”. Dunque la ricettiva e poliposa psiche di Fellini era stata spesso attratta dall’America, anche se in America non aveva mai girato un film, nonostante le proposte non fossero mancate.
Fellini aveva ottenuto il suo primo Oscar con il film La strada, nel 1957. La cerimonia, presentata da Jerry Lewis, si era tenuta nella sala art deco dell’RKO Pantages Theatre. Alla serata erano presenti star come Yul Brynner, Cary Grant e Anna Magnani. Durante una festa Giulietta Masina aveva incrociato Clark Gable. Con candore degno di Gelsomina, il personaggio interpretato per La strada, Giulietta aveva chiesto all’attore di Via col vento un autografo. Clark Gable, il grande seduttore romantico, il divo che aveva pronunciato la celebre e impertinente battuta “Frankly, my dear, i don’t give a damn”, le aveva risposto: “Stasera sono io a dover chiedere l’autografo a te”.
Nella settimana trascorsa a Los Angeles, Fellini era stato corteggiato da alcuni produttori. Erano arrivate offerte da 150.000 e 200.000 dollari. De Laurentiis ne aveva parlato con la stampa: c’erano stati degli incontri, sì, ma Fellini non aveva avuto nessuna voglia di rendersi disponibile e mettersi subito al lavoro, per lo meno non nell’immediato, dato che “a Fellini”, disse De Laurentiis, “piace studiare e lavorare sui soggetti e vivere nell’ambiente descritto”. Nell’intervista tv del 1987, forse Fellini era tornato con la memoria ai giorni trascorsi in California. L’imperfetta conoscenza della lingua lo aveva sempre fatto sentire insicuro. Così aveva confessato al giornalista. Poi aveva aggiunto che una volta, a un produttore americano che lo aveva avvicinato, aveva detto che un film tratto da un racconto americano, magari di Raymond Chandler o di Dashiell Hammett, si sarebbe anche potuto fare, ma a condizione di ricostruire l’America nella comfort zone di Cinecittà.
Fellini metterà in scena il suo dilemma nel penultimo film, L’intervista, uscito nel 1987, trasposizione molto libera di America, il romanzo di Franz Kafka. L’intervista, che si serve dell’espediente del film nel film, è in realtà l’ennesima autobiografia di Fellini. L’America affiora qua e là nel Teatro 5 di Cinecittà, mentre le cascate delle Marmore, in provincia Di Terni, servono a evocare quelle ben più famose del Niagara.
In una scena Fellini siede dietro una scrivania, all’interno di un ufficio. Di fronte a lui ci sono i collaboratori, che trafficano in punti diversi della stanza. C’è chi sfoglia i provini fotografici degli attori, sparsi sopra un tavolo, e c’è chi, stravaccato su un divano, è immerso nella lettura de l’Unità, il quotidiano del PCI. Fellini li prova a convincere: “Bastano pochi elementi scenografici per dare l’atmosfera di una strada americana”.
Il film premio Oscar La strada, scritto da Fellini insieme a Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, non piacque per niente alla critica militante, perché il film si discostava dalla causa neorealista, perché piegava verso la favola ed era credulo e indulgente nei confronti del mondo magico e zingaresco dei clown. A Venezia era stato bersagliato da una durissima contestazione, specialmente da parte di un gruppo di tifosi del marxista Luchino Visconti. Una ragione in più per credere che Fellini, durante i giorni trascorsi a Los Angeles, osservò l’America con uno sguardo esclusivamente suo e con occhi privi dello schematismo tipico dell’intellettuale engagé del tempo, lasciandosi perciò affascinare dall’America più immaginifica e mercantile, quella delle pubblicità e dei neon, quella ludica e fantascientifica dei luna park, quella delle strade percorse dalle grandi cilindrate dal design fantasmagorico, quella delle dive dalle chiome color platino e dei cowboy seduti nei diner, con i mirabolanti cappelli Stetson dalle ampie falde. Del resto Mastroianni in 8 1\2 indosserà un copricapo molto esotico, praticamente da cowboy, così come ne La dolce vita si esibirà Adriano Celentano, uno dei principali mediatori dello stile rock’n’roll in Italia.
Delle ore trascorse da Fellini a Disneyland non si sa granché. Il parco era stato aperto nel 1955. Walt Disney in persona accolse Fellini, questo è noto, in compagnia di una banda musicale che suonò le musiche scritte da Nino Rota per La strada. È possibile che Fellini, prima di veder apparire Walt Disney e la banda, sia stato accolto all’ingresso del parco da una mascotte in abito da Campanellino, secondo la liturgia prevista per i turisti a Disneyland. Poi senz’altro Fellini avrà fatto visita al castello della bella addormentata nel bosco, avrà ammirato il totemico razzo spaziale, la giostra con le tazze da tè e forse avrà incrociato un gruppo di figuranti travestiti da nativi indiani, simili a quelli che trent’anni dopo compariranno in una scena de L’intervista. Esistono altre due testimonianze di ulteriori visite di Fellini a Disneyland. La prima è una foto a colori, scattata nel 1964 a Disneyland: Fellini, Giulietta Masina e Sandra Milo.
I tre si trovano in California per il terzo Oscar di Fellini, quello assegnato a 8 1\2. Alle loro spalle c’è il produttore Angelo Rizzoli. Manca invece lo sceneggiatore Ennio Flaiano, che litigò con Fellini mentre facevano scalo a New York. A New York, Fellini, Giulietta Masina e Sandra Milo avevano partecipato all’inaugurazione di un ristorante sull’Empire State Building intitolato a Mark Twain. Masina, la Milo e la modella e stilista Jackie Rogers, che aveva avuto una piccola parte in 8 1\2, si erano fotografate accanto alla statua a grandezza naturale di Twain, raffigurato con i baffoni e le mani dentro le tasche della giacca. La Milo era raggiante e Giulietta era malinconica.
Sulle Hollywood Hills di Los Angeles avevano visitato Forest Lawn, un cimitero esclusivo, con tanto di musica in filodiffusione, repliche di Michelangelo e Canova, reclamizzato per strada da grandi cartelli pubblicitari. Slogan: “Anche la morte può essere bella”. Il dettaglio della tappa non è superfluo, visto che in quel periodo Fellini stava girando in gran segreto Giulietta degli spiriti.
Un’altra testimonianza arriva invece da Ciao Federico, documentario girato sul set del film Satyricon. A un certo punto sbuca Roman Polanski, in compagnia della moglie, l’attrice Sharon Tate, in minigonna cortissima, nello stile go-go girl. Polanski sembra l’apprendista stregone felice di aver ritrovato il maestro, tutto scodinzolante e desideroso di compiacere Fellini. “Devi tornare a Disneyland”, dice Polanski. I due erano stati insieme a Disneyland. Poi Polanski specifica che in occasione della sua ultima visita a Disneyland era fatto (“stoned”). Fellini allora commenta che la prossima volta che tornerà in America passerà due settimane a Disneyland. La risposta sembra un po’ insincera. Fellini vuole accontentare Polanski donandogli un po’ della sua attenzione, ma al tempo stesso vuole liberarsene. È troppo preso dal lavoro sul set e perciò lo congeda: “So, Roman, i will call you on monday morning”.
Una scheggia d’America di quegli anni è infilata anche all’interno di uno splendido aneddoto che Fellini confeziona sul momento e regala al giornalista RAI Carlo Mazzarella. Ci troviamo a Cannes, nel 1960, dove Fellini è in concorso con La dolce vita. I due a quanto pare sono vicini di stanza in albergo. I balconi delle due camere sono proprio l’uno accanto all’altro e l’intervista viene girata così, con l’artista e il giornalista che si parlano da balcone a balcone, di fronte al mare.
Mazzarella domanda a Fellini che cosa ha sognato la notte precedente. Fellini dice di non essere riuscito a dormire, poi, appoggiato alla balaustra, getta un’occhiata in basso, verso la strada, e comincia a inventare una delle sue famose storielle. Fellini: “Vedi laggiù, quei tre canadesi? Sono lì da un paio d’ore, mi stanno braccando da un paio di giorni […] poi ieri sera ho incontrato un tipo, credo fosse un marinaio in borghese, che girava con un paio di scarpe da donna infilate nelle tasche posteriori dei pantaloni, e mi ha detto «Eh, lei Fellini…», in americano, «le devo dire che il suo film non mi è piaciuto, non condivido le stranezze dei suoi film, non credo che la vita sia così». Poi, la cosa più divertente è stata una signora, che aveva un pezzo di naso d’oro. L’ho incontrata stamattina a bordo di una Cadillac e aveva una scimmietta in braccio. Ha fatto fermare la macchina guidata dall’autista. Mi ha detto «Lei è Fellini?», con questo naso scintillante, con una vocetta metallica, «ma perché nel suo film non c’è neanche una persona normale?»”. Ancora Fellini non lo sa, ma questa catena di strane apparizioni farà da preludio alla sua prima Palma d’oro.
Immagine di apertura: Federico Fellini indossa il cappello da cowboy di Marcello Mastroianni, seduto al fianco di Sophia Loren, sul set di 8 ½, 1962.