So pretty, so vacant. Il punk nel cinema italiano

Lorenzo Ottone

Stereotipata o autocelebrata, la sottocultura ha lasciato la sua traccia nella storia del cinema italiano. Ne ripercorriamo l’eredità, tra il costume e la musica.

Il punk è morto? C’è forse domanda più frequente e codificata, ma tuttora irrisolta, in ambito sottoculturale? Benché, come molti sostengono, il punk come guizzo situazionista si sia esaurito a pochi mesi dalla sua deflagrazione intorno al 1977, la sua eredità continua ad affascinare e influenzare molteplici settori creativi.

D’altronde già in battuta, all’alba degli ‘80, anche il cinema non ne fu immune. Come molte industrie – tra cui la moda e la musica – la settima arte non perse occasione di saltare sul carro dei chiodi, delle creste e delle borchie per speculare sul nuovo fenomeno urbano.

L’atteso ritorno sulle scene dei CCCP – Fedeli alla Linea dopo un’assenza dai palchi di oltre trent’anni, è dunque l’occasione per ripercorrere le contaminazioni tra la sottocultura e il cinema in Italia. 

Gli stessi CCCP avevano incrociato il grande schermo nel 1997, diversi anni dopo il loro scioglimento, quando presero parte insieme alla loro successiva incarnazione CSI – Consorzio Suonatori Indipendenti e agli affiliati Üstmamò alla colonna sonora di Tutti giù per terra, film diretto da Davide Ferrario e con Caterina Caselli ed un allora emergente Valerio Mastandrea. 

Tuttavia, molto prima degli anni Novanta, il cinema italiano – come già in precedenza con altre scene giovanili, come quella beat – aveva individuato nel punk una lente attraverso cui osservare e commentare la società contemporanea del tempo.

Per questo motivo, la filmografia punk italiana deve essere (salvo rare eccezioni) inquadrata come scissa dalla produzione, fatta di cassette auto distribuite e fanzine fotocopiate, dell’underground.  

D’altronde, il punk (come altre precedenti scene giovanili importate dall’estero tra cui il rock’n’roll e, ancora una volta, il beat) venne quasi da subito intercettato dalla cultura dominante che lo piegò ai propri fini narrativi e commerciali, con prodotti subculturalmente ibridi che tuttavia sono riusciti a fare la storia della cultura pop. Per citarne alcuni: il look da kamikaze punk di Donatella Rettore per l’immagine coordinata del suo singolo “Lamette” e lo styling di Anna Oxa a Sanremo 1978 nell’esecuzione della ballata, tutt’altro che punk, “Un’emozione da poco”. Del resto, anche gli Skiantos, pur provenendo dall’hummus sottoculturale della Bologna post ’77, raggiunsero presto la fama nazionale grazie all’esposizione mediatica concessa loro, tra gli altri, da Renzo Arbore, già in passato demiurgo di una via italiana alla beatlemania con Bandiera Gialla a fianco di Gianni Boncompagni. 

La commedia, infatti, è il genere che più ha toccato il punk, utilizzando i membri della sottocultura come personaggi spesso farseschi per evidenziare i conflitti culturali e generazionali tra padri e figli, tra mainstream e underground. 

Si pensi, ad esempio, ai top, aderentissimi, in stile Jean-Paul Gaultier e Vivienne Westwood indossata dal personaggio interpretato in Borotalco (1982) di Carlo Verdone da Christian De Sica, un iperbolico e massimalista studente velatamente omosessuale con il sogno di diventare ballerino e showman. E ancora, il ritratto stereotipato del punk (Andrea Azzarito) che frequenta la figlia di Lino Banfi in Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio (1983).

In un episodio Professione vacanze, serie televisiva del 1987 con Jerry Calà, un gruppo di punk prende d’assalto il villaggio turistico pugliese al centro della storia. La band, capitanata da Ottone, è ritratta ancora una volta con tratti stereotipati e iperbolici: giovani chiassosi e lerci, di nero vestiti, alla guida di un furgone scassato decorato a bomboletta con loghi e scritte anarchichi.
Il loro accento romano ricorda RanXerox, il coatto sintetico nato dalla matita e dalle idee di Stefano Tamburini e Tanino Liberatore che in quegli anni veniva reso celebre dalla rivista Frigidaire.

Calà, ancora una volta, si trova a ironizzare sul punk in Vado a vivere da solo (1982). Qui, nel suo appartamento da scapolo, si trova la “tazza punk”, un gabinetto che, ogni volta che viene utilizzata, aziona un juke-box per coprire rumori spiacevoli.

Un’altra commedia ad offrire un insight nella scena punk è Animali metropolitani, mockumentary antropologico e tentativo quasi fuori tempo massimo (1987) di Steno di commentare sulla cultura in questione. Il risultato complessivo del film, con Mara Venier, Francesco Scali, Karina Huff e Ninetto Davoli, è piuttosto grottesco, ma non privo di fascino per gli amanti del genere e delle traiettorie sottoculturali.

È, però, un’altra firma della golden age della commedia all’italiana, Dino Risi, il primo a toccare il punk come fenomeno di costume e ribellione. Con Caro papà del 1979, il regista de Il sorpasso inserisce una ragazza punk, con tanto di spillone alle guancia e stella brigatista disegnata sulla fronte, nel gruppo di ragazzi amici del figlio (Stefano Madia) del protagonista Vittorio Gassman, in un dramma politico e generazionale sul finire degli Anni di Piombo apprezzato anche a Cannes e ai David di Donatello.

Tuttavia, si trovava comunque spazio per tentativi indipendenti e d’avanguardia di narrare il punk sul grande schermo. A spiccare è senza dubbio L’inceneritore (1984), uno dei film underground italiani più elusivi di sempre. Diretto da Pierfrancesco Boscaro Degli Ambrosi e interpretato per lo più da sconosciuti punk padovani, il film è un horror grottesco in cui le tematiche ambientaliste legate all’inceneritore della città si incontrano con il paranormale e la devianza giovanile. Dopo essere stato presentato per la prima volta alla 41esima Mostra del Cinema di Venezia, L’inceneritore non riuscì ad ottenere una distribuzione, cadendo presto nel dimenticatoio. La colonna sonora, composta dalla leggenda metal e progressive Richard Benson, eleva ulteriormente il film allo status di cult. Oggi, a distanza di quarant’anni dal debutto nelle sale, il film sembra essere finalmente destinato a ritornare disponibile al pubblico in versione restaurata.

Ancora più ricercato è Punk Artist – The Movie (1980), forse l’opera cinematografica punk italiana più genuina ed aderente alla sottocultura, nonché uno dei primi esperimenti in video sul tema. Il film diretto da Manuel Franceschini fu concepito da Graziano Origa, vulcanico artista ed agitatore culturale sardo, tra i demiurghi del punk in Italia. L’opera trae ispirazione nel nome dall’omonima testata che Origa aveva fondato importando in Italia e modificando a suo modo Interview, il magazine di Andy Warhol, di cui era amico.

Nelle parole dell’artista stesso, Punk Artist – The Movie prevedeva “rossetto nero, sudore e sangue” e vedeva come protagonisti “leather boys, killer e maniaci” scritturati tra i protagonisti della scena underground cittadina del tempo. Tra questi: Joe Zattere, Big Laura, Marco Cy e, si dice, anche Maurizio Arcieri e Christina Moser, ovvero i Krisma. In seguito alla prima presso il Primadonna, stravagante tempio dell’eccesso meneghino dei fine ‘70, le bobine del film furono rubate, rendendolo un tesoro perduto del cinema indipendente italiano.

Sebbene decisamente meno crudo, I ragazzi di Torino sognano Tokyo e vanno a Berlino (1986) di Vincenzo Badolisani è un altro interessante esempio di spaghetti punk. L’opera, completamente DIY e espressione del fermento studentesco della città, fu iniziata a inizio decennio per poi essere conclusa, a causa di mancanza di fondi, solamente nel 1986. Distinta da un taglio a tratti demenziale, I ragazzi di Torino… si concentra sul contrasto tra la quotidianità sabauda ed i sogni di escapismo della generazione post-punk e new wave, di cui la colonna sonora, con tracce tra gli altri di Gaznevada e N.O.I.A., è uno squisito esempio. Il Giappone è un tema ricorrente in costante dialogo con l’estetica punk, come testimoniato dagli occhiali da sole scuri indossati dai due protagonisti del film insieme a fasce da kamikaze; elemento che in quegli stessi anni era stato adottato anche da Donatella Rettore, come appuntato in precedenza.

I ragazzi di Torino Sognano Tokyo e vanno a Berlino, pubblicità 1986.

Sebbene non un film punk o sui punk, bensì con un esponente di quella cultura, è Copkiller (1987) di Roberto Faenza. Un thriller ambientato a New York con colonna sonora di Ennio Morricone dall’archivio CAM Sugar che ha come protagonista John Lydon, membro di Sex Pistols e PIL. Lydon, nel suo primo (e per ora) unico ruolo cinematografico, è un giovane deviato newyorkese in un gioco di guardie e ladri con un poliziotto corrotto (Harvey Keitel) sullo sfondo di una serie di misteriosi omicidi.

In un certo senso, il genio DIY dei maestri del cinema di serie B, che spesso ha preceduto cronologicamente l’avvento del punk, può essere letto come la vera e propria estensione cinematografica della filosofia della sottocultura. Ad ogni modo, la filmografia punk italiana rimane un importante tessera per ricomporre il mosaico del più ampio rapporto  tra la cultura dominante e underground nella storia della settima arte in Italia.

Immagine di apertura: John Lydon in Copkiller, di Roberto Faenza, 1987.